Si intitola ‘Bro’ il cortometraggio realizzato da Federico Moccia solo con smartphone Motorola: la nostra intervista.

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Si intitola Bro il nuovo progetto di Federico Moccia: un cortometraggio realizzato in collaborazione con Motorola e prodotto da Orange Pictures e Adler Entertainment girato interamente con uno smartphone. Il regista, infatti, ha utilizzato alcuni smartphone della famiglia Motorola per realizzare un corto che coinvolge quattro ragazzi e quattro ragazze nel pieno dell’adolescenza. Nel cast, volti noti come l’attrice e influencer Jenny De NucciEleonora Gaggero, ma anche alcuni follower di Motorola, che hanno potuto fare domanda per partecipare al casting tramite i canali social del brand.

Il device che è stato scelto per questo scopo è motorola edge 40 pro, accompagnato dall’altro membro della famiglia, edge 40, nella colorazione nebula green. Non poteva mancare la grande novità lanciata dal brand, razr 40 ultra, il pieghevole top di gamma.

Bro, intervista a Federico Moccia

Bro è un progetto sicuramente sui generis, che per certi aspetti rappresenta anche una sfida. Qual è stato il tuo approccio da regista?
«Ho fatto questa considerazione: oggi tutti inevitabilmente, dai più piccoli ai più grandi, hanno il loro telefonino e il loro mondo con il telefonino. Hanno segreti ma anche riprese, filmati, racconti, fotografie. Questo concetto mi piace moltissimo, perché vedo che anche i miei giovanissimi figli – di 13 e 11 anni – diventano veri e propri operatori. La più piccola, Maria Luna, fotograficamente è anche la più brava. Ha un senso di estetica e di ricerca molto valido. Mi sono detto: perché non farlo direttamente anche all’interno delle nostre linee narrative più vere, tra cui quelle dei giovanissimi? Perché non far diventare loro stessi operatori, portatori sani della loro emozione, storia e di quello che provano in quel momento? L’idea è piaciuta tantissimo a Orange e successivamente a Motorola. Insieme alla produzione Adler siamo andati a fare questo esperimento».

Cosa richiedeva questo esperimento nel dettaglio?
«I protagonisti stessi vengono ripresi e si riprendono. Questa volta, oltre alla capacità recitativa, era richiesta anche la capacità da cameraman. Gli attori dovevano avere a che fare con la ripresa perché la macchina era nelle loro mani. Io facevo un controllo, ma dovevano essere loro a raccontarsi».

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È interessante perché oggi sono i giovani a correggere le inquadrature di noi boomer. Tu hai imparato qualcosa?
«Certo! Come sempre accade, c’era il più bravo di tutti ma anche quello meno bravo. Dato che mi piace lavorare anche con il telefonino, io mi sono piazzato in una via di mezzo in questa classifica virtuale. Credo che dai giovanissimi ci sia da imparare, perché hanno in maniera quasi subliminale le sensazioni del sociale, di quello che accade. Tu ne sei inevitabilmente tagliato fuori. Devi essere attento, curioso e cercare di capire cosa stanno dicendo e di cosa stanno parlando. Credo che sia il loro modo di portarti con loro e farti crescere. Malgrado siano più giovani, fanno crescere anche te».

È un po’ un fil rouge della tua carriera quello di attingere a piene mani dal mondo dei giovanissimi. È una generazione che ti affascina?
«Immagino che possa essere utile una specie di travaso. Da una parte e dall’altra c’è uno scambio. Mi piacerebbe che i giovani acquisissero l’importanza dei valori, l’attenzione alle emozioni e il rispetto degli altri. Purtroppo, attraverso la grande forza delle immagini a volte negative, capita che le cose acquisite diventino normali anche se sono sbagliate. Sto parlando di bullismo, femminicidio… Sono temi talmente abitudinari, li senti con quotidianità, che diventano normali. È il pericolo più grande. Devi sempre far sentire il peso di questi temi, ma sono le radici che ci portiamo dietro noi e che dobbiamo ripiantare e ritrasmettere alle generazioni che arrivano, per rimanere attaccati alla nostra terra dei valori».

E loro cosa ti insegnano?
«Ti regalano la capacità di capire. Al posto di giudicare i social e i telefonini come il diavolo, la dannazione e la distrazione. Ci può essere anche altro. Ad esempio, vedo che i miei figli fanno anche ricerche di conoscenza e curiosità, mi raccontano cose che non so. Ogni tanto mi dicono cose del passato sui musicisti, visto che a mio figlio Alessandro piace molto la musica. Il telefonino è anche navigazione di conoscenza. Bisogna saperla rispettare perché la voglia di conoscere è a monte. Con cosa la si navighi è la differenza».

Il titolo del corto, del resto, è Bro proprio perché indaghi il rapporto tra giovani e smartphone con un’accezione positiva.
«Dipende dall’uso che ne fai. Vale anche per un coltello. Se i tuoi commensali pensano che sia il miglior modo per tagliare in modo sottile il serrano è un conto. Se lo usi per rapinare una persona, cambia il valore stesso dell’oggetto. Il telefonino, in questo, può essere anche un narratore d’amore. Ti consegna un bellissimo messaggio legato ad un’immagine o una dichiarazione d’amore realizzata con un selftape. Mi piace pensarlo come positivo, come un contatto di sentimento».

C’è qualche tecnica che ti hanno insegnato questi ragazzi?
«Tante volte loro stessi hanno fatto riprese che non avrei mai neanche saputo suggerire. Vedrete il racconto di ciò che potrebbe essere, questo corto è un grande trailer. E il narratore racconta i suoi amici e le storie con riprese molto belle e con una naturalezza incredibile, recitando e girando. Mi ha veramente sorpreso la sua capacità. L’unica vera fortuna è che ogni tanto scegli la persona giusta nel ruolo giusto. Fai una scommessa e, se vinci, sei in gamba».

Bisogna anche però avere di fronte un regista disposto a scommettere.
«Altre volte però fai una scommessa e rimani sorpreso perché non va come avresti voluto. Però, sì, è bello scoprire».