Il Tenco, l’album ‘Piccoli Fragilissimi Film – Reloaded’ e la ricerca di sé (senza mai conoscersi): intervista a Paolo Benvegnù.

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È un 2024 ricco di sorprese quello di Paolo Benvegnù e, in fondo, le novità sono sempre foriere di scoperte e consapevolezze. Fresco del Premio Tenco come Migliore Album in assoluto (con È inutile parlare d’amore), in risposta ai nostri complimenti, il cantautore risponde pronto che «si sono sbagliati». «Lo sfinimento è una delle tattiche degli esseri umani e io ho tentato di prendervi per sfinimento. – aggiunge – Ancora non mi capacito, mi sembra qualcosa di molto grande e la vivo come un’illusione. In realtà mi sento molto più responsabilizzato. Ora quando sbaglio a cantare o non prendo un accordo mi dispero». Una «istituzionalizzazione» non necessaria (ma dovuta): curioso che arrivi anche nell’anno della rilettura di Piccoli Fragilissimi Film – l’album di debutto del 2004 – uscito con il nuovo titolo Piccoli Fragilissimi Film – Reloaded, ricco di ospiti.

Paolo Fresu e Ermal Meta, Tosca, Malika Ayane, Giovanni Truppi, Piero Pelù, Fast Animals and Slow Kids, La Rappresentante di Lista, Motta, Appino, Dente e Lamante scompongono e ricompongono le tracce di allora, a cui si sommano anche tre nuovi inediti. «Mi fa un effetto strano. – dice Paolo Benvegnù – Io rifuggo dalla nostalgia. Non avevo la minima idea di fare questa cosa. I ragazzi di Woodworm mi hanno detto che il disco è stato importante e formativo, ma io da dentro non ci avevo mai visto nulla. I miei compagni mi hanno ribadito che sarebbe potuta essere una buona opportunità: fare qualcosa di nuovo per noi, senza l’impegno di scrivere nuove cose a stretto giro di posta». E poi i futuri ospiti «hanno risposto con entusiasmo. A quel punto non potevo mancare io».

Paolo Benvegnù e il processo di sviluppo di Piccoli Fragilissimi Film – Reloaded

È stato tuttavia un processo fuori controllo, nel senso più positivo possibile. «Ho semplicemente cercato di cantare come gli ospiti, imparando tantissime cose. Mi ha stupito la volontarietà di commettere questo crimine in tanti. Io mi assumo le responsabilità del crimine e sono pronto a fare galera, ma in realtà è la prima volta che posso dire Che bel disco, è stato divertente».

Son trascorsi del resto 20 anni e guardarsi indietro talvolta potrebbe essere addirittura faticoso. Ma Paolo Benvegnù si definisce «ben lungi dall’essere risolto e alcune cose permangono, come la presenza di qualcosa più grande di me». «All’epoca c’era disperazione, perché avevo la tentazione di cercare uno spazio nel mondo. Ora non ho volontà di potenza e questa cosa permane in me come traccia di ricerca. Permettere che le cose passino è un raggiungimento. Nel 2004 era un urlo incosciente per cercare di pacificarmi. Sì, è un disco di profonda terapia ma l’ho capito dopo averlo fatto adesso».

«Da grande voyeur, ho visto un puzzle in 3D che si formava da solo. – aggiunge – E sorridevo di questa cosa. Ad esempio, Paolo Benvegnù ed Appino hanno una frequentazione dei peggiori bar di Caracas, ma gli altri che hanno lanciato la cima a noi sulla zattera non hanno quell’estrazione. Ed è stato incredibile vedere come temi, neanche focalizzati, venissero espressi in maniera concreta. Ognuno ha trovato il proprio spazio per assonanza. Per me è incredibile e fa parte di questo anno stupefacente: è tutto una stupefazione. Ho come l’impressione di riuscire a cogliere le cose non solo nell’aspetto percettivo. Nel disco di 20 anni fa trovo piccole divinazioni. Quando farò di questa cosa una tecnica, scommetterò su qualsiasi cosa». In fondo, però, la stessa ricerca può diventare tecnica?

«Lo diceva Fellini su 8 e 1/2 che i film si fanno un po’ da soli. Per me è stata la stessa cosa. – risponde – All’epoca ero veramente disperato, in questa perfetta dualità tra un senso di colpa gigantesco e la libertà di non sapere cosa ti succede tra 10 minuti. Fuori dai ruoli che avevo avuto fino a quel momento. È evidente che qualcosa dovevo cercare di dirmi: 20 anni dopo alcune cose suonano estremamente identiche. Dal punto di vista del segno, mi fa pensare che probabilmente ho proprio bisogno di momenti estremi per riuscire nella scrittura. È inutile parlare d’amore è un disco diverso ma altrettanto estremo, perché ogni tanto bisogna anche soffrire. Io stento a capire ancora chi sono e, devo dire, per fortuna. Ogni mattina che mi sveglio con me stesso è un grande trauma».

Come mai?, gli chiediamo. «Mi sento noiosissimo, soprattutto quando vedo qualcuno che ha il talento della fiamma. Penso ad Alessandro Fiori che è incredibile, anche quando lo vedi camminare è arte. L’estetica interiore ti fa pensare: io sinceramente sono andato in consunzione per trovare risposte. Non mi servono per respirare, ma per comprendere lo spazio in cui finisce il mio sguardo. È sempre qualcosa di inutile, ma serve l’inutilità del gesto. Io cerco di allontanare l’idea».

Gli inediti e la realtà percepita

Tornando all’album, chiediamo a Paolo Benvegnù dei tre inediti dell’album (Preferisci i silenzi feat. Giulio Casale, Le gioie minime feat. Irene Grandi, Isola Ariosto feat. Max Collini). C’è un collegamento filologico con l’album stesso, perché sono brani nati tra il 2001 e il 2003. «Non avevo mai pensato a quei brani. – commenta – Li avevo dimenticati, fino a quando ho trovato un cd, che suonava malissimo, con i provini. Questi pezzi sono dunque filologicamente esatti e, nel cofanetto, c’è anche una cassetta con ulteriori brani dello stesso periodo, francamente trascurabili. Le gioie minime e Preferisci i silenzi mi piacevano molto, ma erano per me ripetizione di episodi più riusciti. C’è un brano che si chiama Un lampo un sogno in cui mi lancio in un patetismo imbarazzante. Si può, nel caso, accarezzare l’ingenuità con cui sono stati fatti».

Non è tuttavia incredibilmente rincuorante constatare che questi brani siano sempre un angolo di conforto per chi ascolta? «Ho preso da poco un libro di interviste a Cioran, che a me fa ridere tantissimo. – ci risponde Benvegnù – E mi rincuora vedere che non c’è alcuna risoluzione alle contrapposizioni tra sé e sé. La risoluzione con sicurezza non esiste. A volte le intuizioni sono urticanti per l’altro e per chi le dice, ma nel momento in cui c’è uno sguardo, non identico ma simile, nella volontà di ricerca mi sento confortato». Un dettaglio che «gli esseri umani stanno dimenticando», perché – continua il cantautore – «alcune cose hanno il loro tempo, non puoi assimilarle in maniera prussiana perché è dovuto. Ti arrivano quando devono arrivare. Quando non comprendo qualcosa, mi incuriosisco e voglio capire cos’è. Nel mondo post-moderno, invece, sono gli altri che si spiegano male».

E, in fondo, «bisogna uscire dal fatto che la realtà percepita sia la realtà». Secondo il cantautore, «non funziona così, soprattutto nel sentire, nella relazione e internamente». Ma ancora di più «nelle auto-considerazioni e nel tentativo di oggettività nel confronto tra il mare piccolo che siamo e il mare enorme che ci circonda».