18 brani che indagano tra le ispirazioni di Halsey: un viaggio in musica in cui la cantautrice mostra se stessa come mai prima d’ora.

Dopo i primi singoli, immagini sui social e tanta attesa, è finalmente disponibile The Great Impersonator, il nuovo album di Halsey. Come si evince dal titolo – e come dichiarato dalla stessa cantautrice – il progetto è un’esplorazione del tempo e del destino, e di che tipo di artista Halsey sarebbe se fosse esistita in decenni diversi. Le 18 tracce di The Great Impersonator si muovono dunque tra generi musicali differenti appartenenti ai vari decenni del passato, spaziando così dalla fine degli anni ’60 ai primi anni 2000. Un concept estremamente complicato – almeno sulla carta, nella sua realizzazione – di cui tuttavia Halsey ci aveva già dato un assaggio con i primi brani estratti: da I Never Loved You, scritto dall’artista insieme a Michael Uzowuru e Tyler Johnson, a Ego, singolo con il quale l’artista si è esibita ai VMA, Lonely is the Muse, Lucky e The End.

Halsey, il viaggio di The Great Impersonator

Il viaggio di The Great Impersonator si apre tuttavia con Only Living Girl in LA (che vanta le firme di Michael Uzowuru, Alex G e Sir Dylan): un traccia acustica, da pelle d’oca quando si apre. Un brano lungo circa sei minuti che, sul finale, diventa quasi cacofonico. Una dichiarazione d’intenti: Halsey ci sta già dicendo che questo album va ascoltato dall’inizio alla fine. È un viaggio a tappe, che si propone di ignorare le regole odierne del mercato discografico.

Da Ego a Hometown

Ego ci porta poi nelle atmosfere degli anni ’90, ma è estremamente curioso notare quanto i temi e il testo siano attuali, con i loro riferimenti al dualismo che caratterizza la nostra società tra apparenza e esistenzialismo. Dog Years è dichiaratamente un omaggio a PJ Harvey, mentre Letter To God (1974) – una registrazione sporca, come quelle su musicassetta – è ispirata a Cher e alla sua hit Dark Lady («Una delle mie canzoni preferite di Cher», ha dichiarato la stessa Halsey). Panic Attack è ispirata a Stevie Nicks, mentre The End – primo singolo dell’album – è una canzone malinconica in cui l’artista parla di salute mentale e fisica. I Believe in Magic inizia con una chitarra sporca e con la registrazione della voce in sottofondo di Ender, figlio di Halsey. Spoilerata (giusto un po’) su TikTok, Halsey ha rivelato che il brano è un omaggio a Linda Ronstadt, «un vero camaleonte».

Letter to God (1983) è chiaramente un omaggio a Bruce Springsteen – e più nello specifico a Dancing in the Dark – mentre Hometown è ispirata e influenzata da Dolly Parton. Siamo a metà album e l’impressione è che Halsey si sia divertita molto musicalmente. Da un lato, la volontà chiara è quella di rendere omaggio ai propri idoli, ma – nello stesso tempo – dimostrare che la musica non ha tempo. Si può andare, in breve, al di là delle etichette che oggi imperano nel mercato creando schematismi non necessari.

La seconda metà dell’album

La seconda metà dell’album si apre con I Never Loved You (ispirata a Kate Bush), mentre Darwinism è un chiaro omaggio a David Bowie. Le reference di Halsey sono cristalline: spesso, più che le atmosfere sonore, sembra che l’ispirazione di Halsey arrivi da uno specifico brano iconico. Nel caso di Darwinism, ad esempio, il testo fa pensare a Space Oddity e al suo esistenzialismo. È più la filosofia di Bowie ad essere ben rappresentata nella canzone, più che le sue sonorità.

Lonely is the Muse (suonata per la prima volta a Budapest) nasce come una poesia, trasformata poi in canzone. È un rock malinconico con un finale disperato e urlato. Si continua con Arsonist, Life of the Spider (Draft), e Hurt Feelings, ispirato alla sua Badlands era. E ancora Lucky – qui Britney Spears è evidente – Letter to God (1998) – ispirata a Are You That Somebody di Aaliyah – e infine la chiusa con The Great Impersonator. È l’unico album di Halsey con una title track, e il sound è quasi quello di un musical. Una storia finisce col suo narratore?, canta Halsey sul finale e sembra quasi una verità quella che la cantautrice ci sta dicendo: ogni artista è, in fondo, un imitatore. Un personaggio riflesso che nasconde la persona: eppure mai un’artista è stata così sincera. È forse un paradosso? 

Halsey: maschere e realtà

The Great Impersonator deve essere visto e ascoltato nella sua interezza, come un viaggio in cui Halsey ci porta alla scoperta di sé. Dalle sue ispirazioni ai suoi esordi, fino alla musica che l’ha guidata in tutta la sua vita e carriera: le ispirazioni diventano Halsey, così Halsey stessa diventa le sue ispirazioni. La distanza tra artista e ascoltatore si annulla, in un caleidoscopio che fa sfumare i contorni dei ruoli – qui dichiarati, sovvertiti, distrutti – perché chiunque in fondo è persona e personaggio. A seconda del contesto.