Rosalia Radosti ci racconta la sua nuova opera, ‘La Regina dei Buffoni’, edito da Rebelle Edizioni. L’intervista.
Si intitola La Regina dei Buffoni la seconda graphic novel firmata da Rosalia Radosti (Rebelle Edizioni). Dopo Selvaggia (2022), Rosalia Radosti ci regala una storia all’apparenza fiabesca che mette al centro temi come l’identità e la diversità. Lo fa usando un espediente grafico e narrativo che contrappone il colorato mondo della corte immaginaria di Jacqueline alla realtà più dura e solitaria di Jacques.
«In realtà è un po’ la mia storia. – ci racconta Rosalia – La famiglia di Jaqueline è stata purtroppo la mia famiglia e tutti i personaggi che hanno qualche problema con la propria identità o con l’affermazione di essa sono sempre parte di me. Non volevo parlare di me e fare un’autobiografia, ma parlare di alcuni problemi legati alla salute mentale e all’identità nella società: ho dovuto quindi mettere ciò che conosco. L’unica cosa che mi sono permessa di fare, e che non mi appartiene interamente, è regalare tutto ciò alla protagonista. Credo che le persone trans, e soprattutto le donne, vivano un periodo storico in cui cercano di affermarsi trovando in risposta molta violenza e aggressività. Ho dato quindi questo aspetto a una bambina per sottolineare che non c’è niente di sordido, ma è anzi tutto molto pulito».
Rosalia Radosti racconta La Regina dei Buffoni
Ne La Regina dei Buffoni siamo nel 1760. Jacqueline è una giovane principessa senza un castello o un regno e con dei clown a farle da corte. Ha tuttavia un problema: se non diventerà ufficialmente una regina, scomparirà. Un giorno viene a conoscenza dell’esistenza del leggendario abito d’oro, in grado di trasformare chi lo indossa in ciò che più desidera. In compagnia della sua fidata corte, si mette in viaggio per cercarlo, decisa a fare di tutto per salvare se stessa e i suoi amici. Jacqueline in realtà non esiste, è solo una fantasia di Jacques, bambino della stessa età, che vive in un ambiente famigliare rude, violento, fatto di duro lavoro nei campi e di una religiosità soffocante che permea tutto il mondo intorno a lui.
Eppure, finirete per affezionarvi a questi personaggi folli, per quanto puramente immaginari. «Sono tutti un pezzo di me o lo sono stati. – ci dice Rosalia – L’uomo senza faccia sono proprio io: è la de-personalizzazione che avviene quando ti guardi allo specchio e non riconosci la tua faccia come tua. Non per un disturbo neuro-visivo, ma semplicemente perché assomiglia a quella dei tuoi genitori. Tu li vedi in un certo modo e non trovi la corrispondenza con ciò che sei dentro. Pacôme che diventa uno specchio rappresenta invece l’autismo, perché io sono anche quello. Ci adattiamo alla società facendo masking, ma quando cade la maschera ci resta il mirroring, la mera imitazione del prossimo. Quando manca anche quello, Pacôme diventa se stesso. All’esterno si viene visti a volte come animaletti selvatici, un po’ strani, ma internamente c’è coerenza».
Poi c’è l’uomo-pecora – Albert – che «rappresenta il momento in cui hai paura di non farcela a sopravvivere nel mondo. A parole siamo tutti coraggiosi, con esercizi intellettuali».
Identità e confronto con la società
Insomma, i personaggi de La Regina dei Buffoni rappresentano il diverso, ma nel confronto con la società sembrano uscirne tutti perdenti. «Ci trovo un cronico problema di autostima. – ci spiega Rosalia Radosti – Cerchiamo le conferme e la validazione fuori da noi e non dentro di noi. Nessuno di questi personaggi fa la cosa più spaventosa: guardarsi dentro. Perché poi, quando ti guardi dentro, trovi un po’ di tutto. Anche la paura di non essere abbastanza». E poi è pur vero che l’identità è personale, ma si basa su «un confronto obbligatorio con la società».
«Per affermare quello che abbiamo dentro, anche se sono solo fatti nostri, dobbiamo dipendere dal mondo fuori. – ci spiega l’autrice – Non perché abbiamo bisogno dell’accettazione formale e dell’affetto di chiunque, ma perché ci deve essere garantita la sopravvivenza. Rimane un fatto secondo me: chi vuole schiacciare la diversità, può schiacciare solo un corpo. Si parla tanto di transessualità tirando in mezzo la biologia, ma gli archeologici e gli storici sono tutti concordi sul fatto che non sanno niente delle emozioni di chi è vissuto tanto tempo fa. Siamo quello che sentiamo o quello che sembriamo? Secondo me è più vero che siamo ciò che sentiamo».
È molto difficile parlare de La Regina dei Buffoni evitando spoiler, perché è una storia che si svela leggendola, anche nelle sue sfumature più cupe. «È successo anche con Selvaggia – dice Rosalia – ma non voglio dare nessun dogma con il finale. In questo caso, il finale non è così terribile. Secondo me emerge la luce di ognuno e in realtà c’è una speranza. C’è sempre. Dobbiamo essere però realisti e ricordarci che combattiamo in un mondo in cui c’è poca salute mentale e non tutti se ne fanno carico, soprattutto le persone più problematiche. Volevo raccontare questo: possiamo avere ansia e depressione, ma la differenza la fa proprio il farsene carico. Non vuol dire essere colpevoli o artefici, ma cercare di non buttare i propri problemi addosso agli altri. Banalmente, facendo i bulli».
L’ambientazione e i colori de La Regina dei Buffoni
Rosalia Radosti sceglie – come location di tutti questi concetti – la Francia del 1700. «È l’epoca che più di tutte, se escludiamo quella attuale, ha giocato col mascheramento, con il trucco e le parrucche. Anche se potevano permettersele solo quelli di un certo ceto, era comunque d’uso. – ci spiega – Mi piaceva l’idea di mascherare: per nasconderci o rivelarci? Ho pensato anche, considerando che prima della Rivoluzione Francese c’erano stati decenni di malcontenti e povertà, di prendere questo nervosismo e far sì che le persone lo sfogassero addosso a chi potevano raggiungere: prima dei nobili c’erano le persone che avevano accanto».
Da qui anche i colori tipici del vaudeville, che erano «belli, ma molto leggeri». «Anche guardando Il Flauto Magico di Ingmar Bergman si vedono questi sfondi dipinti in maniera leggera. – dice Rosalia – La Regina dei Buffoni inizia come un’opera teatrale e volevo dare la sensazione che ci fosse un mondo fatto di cartone. I colori poi cambiano quando si arriva nella città perché lì inizia a subentrare la realtà. Il rosso è già un assaggio della violenza che Jacqueline percepisce nella vita reale: inizia a provare questo malanimo e questa sensazione di paura e aggressione».
La Regina dei Buffoni e il simbolismo dell’abito d’oro
Del resto, la Radosti arriva da tanti anni di teatro, ma mai – nelle sue opere – c’è qualcosa di prestabilito. «Razionalizzo tutto dopo. – precisa – L’importante è seguire il ritmo della storia vivendola. Anche per questo è più difficile la scrittura rispetto al resto. Ho un ritmo mio interiore e, per aiutarmi a rimanere in quel ritmo, scelgo delle colonne sonore. La scelta della playlist è molto lunga e complicata e mi piace condividerla. Alla fine è un di più che aiuta». Troverete nel volume, non a caso, un QR Code che vi mostrerà proprio la playlist dell’autrice. Da non perdere.
Infine, chiediamo a Rosalia cosa rappresenti per lei l’abito d’oro. «È giusto – risponde – che ognuno ci veda ciò che vuole. Per me è l’ufficializzazione del genere di Jacqueline. Un aiuto a vivere in maniera coerente la propria vita. In fondo, Jacqueline e la sua corte vogliono solo essere legittimati. Ognuno cerca di essere legittimo nel mondo, senza essere stigmatizzato».