Se in un ipotetico futuro gli uomini trovassero i romanzi di oggi (vittime e non) della cancel culture cosa capirebbero del nostro tempo?
Anno 3056. Pianeta Terra. Un individuo del futuro, passeggiando tra i corridoi di un museo, si ferma a guardare una teca in cui è custodito uno degli oggetti su cui si fonda la testimonianza del passato. Gli Antichi lo chiamavano libro, lo usavano – si presume – come passatempo. Sulle pagine sbiadite l’anno ancora leggibile di pubblicazione è il 2023, in copertina si intravede solo qualche colore. Le pagine raccontano invece di una storia frammentata, fantasiosa, apparentemente senza senso.
Ecco, ammettiamo che nel 3056 non ci siamo ancora estinti. E che il 2023 per il mondo sia Preistoria. Se un uomo del futuro provasse a ricostruire il suo Passato e il nostro Presente basandosi sui libri scovati tra le macerie e sottoterra (sempre che non si siano frantumati), con l’ondata attuale della cancel culture potrebbe veramente non capirci niente. Roald Dahl avrebbe il linguaggio di un autore del 2023, eppure risulterebbe nato nel 1916. Com’è possibile che scriva in modo così contemporaneo? Sarebbe un po’ come imbattersi nell’Iliade di Omero e ritrovarsi a leggere di carri armati e cacciabombardieri. Un impasse storico, più che letterario.
Cancel culture: riscrivere il passato può veramente migliorarci?
Riscrivere il passato per migliorare il futuro è, di fatto, anti-storico. Ci impedisce di imparare dall’errore, non ci permette di percepire l’avanguardia. Si perde di vista l’importanza del cambiamento. Sono contraria a qualsiasi tipo di riscrittura e di censura perché l’opera è sacra, anche se la mente dietro a essa è malintenzionata. La storia è sacra, anche quando è tutta sbagliata. Basta un semplice esempio: cosa saremmo senza il ricordo di tutte le relazioni naufragate che abbiamo alle spalle? Se cancello il messaggio dell’ex che mi ha fatto tremendamente arrabbiare, probabilmente sentirei l’esigenza di riscrivergli. Io invece quei messaggi me li tengo tutti, mi ricordano quanto sono stata cogliona. È importante ricordarsi di quanto si è stati coglioni: è quel senso di vergogna a spingerci a migliorare, a evitare le stesse trappole.
Quell’uomo del 3056 potrebbe, di fatto, pensare che l’umanità non abbia mai avuto problemi di razzismo, di identità di genere, di violenza verbale. Curioso – penserebbe – considerando come siamo messi oggi. Guarda come se la passavano bene nel 2023 e, ancora meglio, nel 1950. Un mondo perfetto – come tutti vorremmo che fosse – durato secoli. Ma il mondo non è perfetto, come non lo sono gli esseri umani. E cancellare le tracce dell’imperfezione ci rende solo superficiali, non certo migliori.
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A me invece piacerebbe che, in un futuro magari lontanissimo, un giovane bambino si ritrovi a leggere Roald Dahl e, di fronte a quel linguaggio arcaico (e per alcuni scorretto), magari inizi a farsi qualche domanda. Colleghi insomma il punto d’arrivo – il suo tempo – a quello di partenza (ipoteticamente il tempo di Dahl) e veda il percorso, il miglioramento. La differenza tra Dahl e J.K. Rowling – insomma – o tra La Fabbrica di Cioccolato e Coraline: un insieme di sfumature sociali condensate in poche righe che in un attimo ci fanno capire chi siamo stati, chi siamo e chi potremmo forse essere.
L’ossessione per l’apparente perfezione non va di certo a braccetto con il pensiero critico, che trova linfa proprio in ciò che andrebbe migliorato. E poi a farmi veramente imbestialire è questo presupposto che noi signori nessuno ci sentiamo liberi di modificare la lingua di autori che hanno fatto la storia, al posto di ringraziarli. Se siamo un pochino migliorati è merito dei vari signori Dahl, Fleming, Tolkien. Non certo di chi pretende di migliorarne il lascito senza lasciarne uno proprio.
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