L’attore Giuseppe Maggio è Bernardo Bertolucci nel film ‘Maria’, presentato a Cannes, che racconta ‘Ultimo tango a Parigi’ attraverso lo sguardo di Schneider. L’intervista.
Quanto cambiare il punto di vista di un racconto può modificare il senso e la verità dello stesso? È la riflessione che solleva Maria, pellicola francese per la regia di Jessica Palud presentata al Festival di Cannes 2024. Lo sguardo, questa volta, è quello di Maria Schneider (Anamaria Vartolomei), giovane e promettente attrice il cui incontro con Bernardo Bertolucci da occasione di svolta diventerà l’inizio della fine, anzitutto personale. E il set è quello di Ultimo tango a Parigi con Marlon Brando degli anni d’oro.
Inutile raccontare oltre, ma la metanarrazione di Maria ribalta la prospettiva e – senza voler di dare giudizi, condanne o assoluzioni – restituisce una riflessione che dà voce anche a chi per lungo tempo non si è voluto ascoltare. A interpretare il ruolo del regista italiano è l’attore Giuseppe Maggio, che ci ha raccontato cosa abbia significato per lui quest’esperienza.
Maria è stato presentato a Cannes, come è stato accolto il film? Quali sono state le reazioni a caldo che hai avuto modo di cogliere?
Quando c’è stata la proiezione del film è stato molto emozionante perché c’è stato un applauso continuo per oltre 10 minuti. Questa cosa mi ha un po’ sconvolto nel senso che non me l’aspettavo. Ero andato a Cannes con l’idea che stavamo proponendo un film molto importante e anche molto delicato, che però poteva essere fortemente contestato e criticato. Invece è stato accolto in maniera sorprendente considerando che il pubblico in sala era composto soprattutto da giornalisti e critici. Mi sono emozionato tanto e anche a parlartene mi vengono gli occhi lucidi. Maria è un film importante perché è una storia importante da raccontare ed è bello che questo venga riconosciuto.
Dall’ultimo atto all’inizio del progetto. Nel film interpreti un giovane Bernardo Bertolucci che in quel 1972 era reduce dalla direzione de Il conformista e guidava le riprese del suo film più discusso e controverso. Da dove sei partito per preparare un personaggio di tale caratura e con svariate sfaccettature?
Sono partito da un’intervista di Bertolucci che ho ascoltato. È un’intervista degli Anni Duemila, in inglese, in cui Bertolucci di Ultimo tango a Parigi in riferimento ovviamente anche a quello che è successo. A un certo punti dice di non sentirsi in colpa, di non avere rimorsi né rimpianti e che quindi lo avrebbe rifatto perché voleva che la protagonista (Maria Schneider, il riferimento è alla scena del burro cui l’attrice andrò incontro ignara ella violenza che di fatto avrebbe subito) vivesse l’umiliazione e la rabbia. Ovvero che non la recitasse.
Ecco, sono partito da quello: non volevo trasmettere un’idea di soddisfazione nel momento in cui quella scena accadeva di fronte ai miei occhi. Durante le riprese abbiamo girato anche quel momento e il mio impegno era comunicare quello stato d’animo. Bertolucci non era compiaciuto di quello che aveva fatto ed è stato fondamentale per me non mostrare quel compiacimento per tale episodio. Era consapevole che, per ottenere quello che lui voleva, dal suo punto di vista quel passaggio fosse necessario. Per lui, in quel momento, il fine giustificava il mezzo e voleva la mortificazione del corpo borghese espresso attraverso una giovane borghese, figlia di una società che per lui e per molti degli artisti di fine Anni Sessanta era il nemico numero uno.
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Colpirne uno, anzi una, per colpirne cento.
Da qui la scelta di realizzare un film che mortifica la società borghese e tenta una fuga da quella società. Entrambi i personaggi sostanzialmente scappano e si rifugiano in un luogo che è un non luogo, fatto solo di macerie perché è un appartamento disastrato deve essere ristrutturato. Lì non sono accettati i nomi, quindi viene persa l’identità e in questo c’è un richiamo a Bacon che anche visivamente era il modello di Bertolucci per Ultimo tango a Parigi. Alla base quindi, c’è questa volontà di fuggire dal mondo borghese ma poi il destino impone al personaggio di Marlon Brando di dover fare i conti con la realtà. Vuol dire rimettersi in quel mondo, morire per poi rinascere. E non è un caso che, quando muore, assume la posizione fetale.
Se questo sguardo con compiaciuto e non voyeuristico, dunque, è stato l’aspetto che hai percepito come il più sfidante in questo ruolo, c’è qualcosa che ti ha sorpreso del Bertolucci uomo?
Era un grande conoscitore del cinema e non solo. Era un artista enorme, un intellettuale e proprio per questo i suoi film non sono mai banali. La complessità dei personaggi nasce anche dalla sua stessa profondità e quello che mi ha colpito è quanto era effettivamente complesso in senso positivo. Del resto parliamo davvero di un artista gigantesco che ha realizzato capolavori, anche tra i suoni titoli meno noti.
Penso a Prima della rivoluzione, la sua seconda pellicola, un film che racconta un incesto ma lo fa con una dolcezza e una poesia che lo priva quasi di giudizio per quanto sia paradossale. La pellicola è molto intima, girata fra l’altro a Parma che è la sua città, e ha un incipit così profondo e così vero che mi emoziona tantissimo. All’inizio si legge Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può capire cosa sia la dolcezza del vivere. Ed ecco che effettivamente Bertolucci racconta quegli anni di passaggio che solo chi li ha vissuti può capirli
Ultimo tango è figlio di quegli anni, figlio di una rottura: prima i rapporti umani erano differenti Magari c’era più ipocrisia ma di sicuro era tutto più incontaminato. Bertolucci vuole denunciare questo in Ultimo tango a Parigi: la contaminazione dei rapporti e l’esaltazione del corpo mortificandolo. Ed è un’esaltazione del corpo che arriva fino ai giorni nostri se pensiamo a quanto il corpo è diventato più importante di tutto il resto. Non ci rendiamo conto che i sintomi di questa degenerazione si possono rintracciare in quei tempi. In questo senso è affascinante pensare alla modernità di questo personaggio.
Quando il cinema racconta se stesso, e in generale quando si fa quasi metanarrazione, l’equilibrio tra documentarismo e finzione è estremamente delicato. Deve rispondere a una scelta precisa. Nel caso di Maria e del tuo Bertolucci, come avete calibrato i due aspetti?
Ci è stata fatta la richiesta di un’evocazione e secondo me è stata la scelta giusta. Se provi a emulare sfoci in una caricatura grottesca, invece con l’evocazione si riescono a comunicare delle sfumature che possono ricordare quel personaggio e quel mondo. E si crea un comune accordo con il pubblico tale per cui sta vedendo la rappresentazione di un qualcosa. Un po’ secondo quanto sosteneva Brecht, che era contro la catarsi aristotelica; al contrario, doveva esserci un rapporto con il pubblico finalizzato a una riflessione. E questo film, secondo me, ha molto di brechtiano: noi non dovevamo identificarci o emulare, ma rappresentare. Maria è un film è rappresentativo.
Lo sguardo nella storia è quello femminile della diciannovenne Maria Schneider per la quale Ultimo tango a Parigi, rispetto alle ambizioni, rappresentò la rovina anzitutto personale. Quanto la scelta di adottare questo punto di vista, che arriva dal libro a cui si ispira, è anche un po’ un risarcimento nei suoi confronti?
Raccontare la storia mediante gli occhi di Maria serve anche a dare un punto diverso, perché al tempo, tra le altre cose, ciò che colpì non fu tanto la violenza ma la sodomia, cosa che fa emergere proprio un discorso più ampio sulla società del tempo. Non ci si è concentrati su una reale violenza con l’alibi che non è stata compiuta realmente, ma violenza c’è stata. Quindi, c’è la volontà di mostrare come una stessa cosa, uno stesso argomento e una stessa situazione possano avere diversi risvolti. Gli occhi di Maria servono a raccontare, in maniera più approfondita, anche il risvolto che ha avuto per lei e che l’ha segnata.
Sia nel film sia nel libro c’è una chiara riflessione su quello che fu il post Ultimo tango e su come una giovane ragazza che amava questo lavoro sia stata considerata banalmente un oggetto sessuale. Non fu riconosciuta in nessun modo come attrice pur avendo un talento gigante. Questo è successo anche perché nel film è a fianco di colui che, secondo me, è l’attore più bravo della storia del cinema, Marlon Brando. E pur tenendogli testa non le riconosciuto il talento. Tanto è vero che per Ultimo tango a Parigi vennero candidati all’Oscar Brando e Bertolucci e non Maria Schneider.
Questo ci racconta molto anche del mondo del cinema di allora.
Assolutamente sì. La stessa ma Maria Schneider disse che era un film fatto da uomini per uomini e, di fatto, ma la società del tempo era una società fatta di uomini che avevano il controllo. Ma non è così perché la società è fatta di uomini e di donne, deve esserci equiparazione e questo principio è un qualcosa rispetto al quale si possono accettare compromessi. Vale per tutto, dai ruoli al compenso. Sembra assurdo parlarne ancora oggi è un tema quanto mai è ancora attuale. Per questo dico che questi tipi di film sono necessari perché sommati tra loro possono portare un risultato.
Non è un film che vuole essere giudicante ma è certamente divisivo, lo è già prima ancora che arrivi nelle sale. Come pensi sarà accolto dal grande pubblico italiano? Temi particolari critiche?
Secondo me il cinema, ma in generale ogni espressione artistica, deve creare dibattito e confronto. Deve essere portatore di riflessioni perché altrimenti non cambia nulla mantenendoci sulla superficie delle cose. L’arte, invece, ha un compito anzi un dovere ben diverso: deve essere qualche passo avanti rispetto al mondo e alla società per poter indicare la strada. Non deve, cioè, rappresentare quello che già viviamo ma in qualche modo deve essere lo specchio di ciò che sarà.
Per questa ragione non tutti possono essere artisti, e non dovrebbero neanche esserlo perché non tutti ne hanno le capacità. Serve un occhio diverso che riesce a cogliere aspetti che potrebbero accadere e verificarsi. Allora un film di questo tipo ha senso perché vede in prospettiva e vede il pericolo della storia che è ciclica. Un film come questo è fondamentale perché da questo film c’è una riflessione sul presente: è un film del passato proiettato al futuro e che serve per una riflessione presente.
Oltre a Maria, in questo momenti in che progetti sei impegnato?
Sto lavorando su una serie per Netflix che si intitola Mrs Playmen sulla Adelina Tattilo, una grande editrice tra gli Anni Sessanta e Ottanta, pioniera non tanto dell’erotismo – perché sarebbe una banalizzazione – ma di un mondo di liberazione e di scoperta maschile e femminile in anni di grande cambiamento. È una storia tutta italiana e molto affascinante a cui sono molto legato e che non vedo l’ora di vedere compiuta.
Lato scrittura, invece, c’è qualcosa in lavorazione?
Guarda, avevo iniziato a scrivere ma poi altri impegni lavorativi mi hanno un po’ bloccato. Però c’era una storia che volevo raccontare, quella di mio nonno attraverso un lasso temporale abbastanza ampio, da dopoguerra fino agli anni della Dolce Vita. Per ora è in stand-by ma vedremo.
Immagini da Ufficio Stampa