Sarà al cinema dal 13 marzo con Tucker Film ‘The Breaking Ice’ di Anthony Chen. La nostra intervista al regista.

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Arriverà nelle sale il 13 marzo con Tucker Film The Breaking Ice, il nuovo film diretto da Anthony Chen che ci porta al confine tra Cina e Corea del Nord. Presentato nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes e poi al TIFF – Toronto Film Festival, The Breaking Ice è interpretato da Zhou Dongyu (protagonista del candidato agli Oscar, Better Days), Liu Haoran (celebre per la saga campione di incassi Detective Chinatown) e Qu Chuxiao (star del kolossal di fantascienza The Wandering Earth).

The Breaking Ice – proprio come si evince dal titolo – sfrutta molto la metafora del ghiaccio e dei paesaggi innevati per mettere in scena un intenso menage a trois: Haofeng, Nana e Xiao si incontrano per caso a Yanji e trascorrono insieme qualche giorno che cambierà per sempre le loro vite. Giovani e smarriti, i tre protagonisti di The Breaking Ice sembrano rappresentare l’intera disillusione di una generazione che ha sempre più difficoltà a definirsi. Anthony Chen racconta questo immobilismo in una storia al confine, domandandosi cosa realmente serva per convincerci a cercare la vera felicità.

The Breaking Ice: intervista al regista Anthony Chen

Vorrei partire dal ghiaccio, che metaforicamente guida l’intero film. Non solo con i paesaggi innevati e nel titolo, ma spesso anche come simbolo di infelicità e isolamento.
«Sai, sono cresciuto a Singapore che è un paese tropicale. Per questo, ho sempre fatto film in cui il clima è tropicale e fa tanto caldo. Quando ho deciso di realizzare un film ambientato in inverno, ho pensato che si dovesse vedere molta neve. Credo però che, nel cinema, la neve sia spesso un elemento romantico, mentre io volevo renderla un’idea più visiva, una metafora. Pensavo al ghiaccio e al processo mediante il quale si forma».

Vale a dire?
«Il ghiaccio si forma dall’acqua quando la temperatura scende al di sotto dello zero. Lì si ghiaccia, è un processo veloce e di trasformazione. Se metti l’acqua nel freezer, in poche ore ottieni lo stesso risultato. Succede anche al contrario: se metti il ghiaccio su una superficie, si scioglie in un paio di ore. Pensavo fosse la metafora perfetta da usare per rappresentare la relazione tra queste tre persone, perché tutto succede nell’arco di un paio di giorni. Si affezionano l’uno all’altro rapidamente, ma nello stesso tempo si separano molto in fretta e il loro legame svanisce all’improvviso. Restano solo i ricordi e le emozioni». 

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Yanji: una città al confine

Hai scelto la location sin dall’inizio? Perché anche Yanji è simbolica: una città innevata, al confine, immobile.
«È il confine tra Cina e Corea del Nord. Siamo nell’est della Cina. Ciò che trovo affascinante è che, prima di questo film, non ci ero mai stato. Ho detto ai produttori che, per fare questo film, volevo andare nel posto più freddo della Cina. Mentre stavo scrivendo la sceneggiatura, ho scoperto questa montagna: Changbai. È estremamente interessante: metà di questa montagna è in Corea del Nord, l’altra metà è in  Cina. Così siamo andati lì coi produttori e abbiamo trovato un lago bellissimo. Ero estremamente emozionato quando l’ho visto per la prima volta. È vicino al confine e molti nord coreani, in realtà, attraversano la montagna per arrivare in Cina».

Una metafora perfetta.
«Beh, il confine! Una città di confine è il posto perfetto per parlare di ragazzi giovani che si sentono persi nella loro vita, che cercano di capire dove sono e chi vogliono essere. Sono letteralmente al confine, ma lo sono anche nella vita: era perfetto. Stavamo guardando la mappa per cercare città intorno alla montagna e abbiamo trovato Yanji. Siamo andati lì, abbiamo trovato una guida e abbiamo partecipato a un tour per 5 giorni. Tutto ciò che ho visto è diventato parte della sceneggiatura». 

Haofeng, Nana e Xiao: giovani disillusi e in cerca di felicità

Ci sono tre personaggi e sono tutti e tre bloccati, ma ognuno di loro – potremmo dire – ha un modo personale di reagire all’immobilismo. Rappresentano tre personalità diverse e, forse, anche tre diverse rappresentazioni del disagio sociale.
«Volevo che fossero bloccati in un certo senso, ma anche che si sentissero di aver fallito nella vita in modo diverso. Nana si è sempre allenata per diventare un’atleta, sin da quando era piccola. Ha avuto un incidente che ha segnato la fine della sua carriera e non ha saputo affrontare il fallimento né la sua famiglia. Lo sport era tutto ciò che conosceva, succede quando lo fai sin da piccola. Nel suo caso, non riesce a venire a patti col fallimento e con il passato ed è finita a fare la guida turistica in questa città. Ha fallito a causa dei suoi sogni».

Poi c’è Haofeng.
«Haofeng è sempre andato bene a scuola seguendo ciò che gli hanno detto i genitori. Tuttavia non è felice, si sente come se per tutta la sua vita avesse seguito queste indicazioni allontanandosi dalle sue vere passioni. Vive in una grande città, ma è stato deluso dalla società, dal sistema, dal successo. E poi Xiao. Non andava bene a scuola, non studiava, a 16 anni ha lasciato la scuola per lavorare in un’altra città: aiuta infatti la zia nel ristorante di famiglia, ma si sente come se non avesse mai realmente avuto la possibilità di provare qualcos’altro. Ha deciso da piccolo che fosse meglio non provare, piuttosto che fallire. Non si sentiva bravo come gli altri, quindi che senso aveva competere? In un certo senso, non permette a se stesso di fallire. Credo che questo sia il modo di definire questi tre personaggi che insieme formano l’immagine della gioventù odierna, specialmente in Cina».

The Breaking Ice e la generazione perduta

C’è qualcuno che ne esce meglio degli altri secondo te? Forse Xiao è meno disilluso.
«Mi piace pensare che tutti loro funzionino come il ghiaccio. Hanno trascorso un po’ di giorni insieme, si sono connessi e si sono aiutati. Il tema non è restare insieme per sempre, ma avere momenti in cui incontri qualcuno che ti cambia la vita e ti fa andare avanti. Anche le due persone che si connettono romanticamente non hanno bisogno di trovarsi, ma di essere in grado di andare avanti con le loro vite».

Tutto sommato, il finale è ottimista.
«Voglio pensare che Nana si sia riconnessa con la sua famiglia, che faccia un passo verso qualcuno. Haofeng credo sappia che l’amore con Nana non è reale, è un sogno, ma il sogno non può andare avanti per sempre. Non credo che tornerà nella grande città, alla sua vita. Il finale è aperto, ma io credo realmente che troverà un modo per uscirne».

Solitudine e non comprensione

Racconti la disillusione di una generazione intera, non solo in Cina. Ne eri più o meno consapevole?
«Questo film è nato dopo la pandemia. Durante il Covid ho letto molto di giovani che si sentono abbandonati dalla generazione precedente, dai governi, dal sistema, dal potere in vigore. Si sentono disillusi, non sono in grado di ottenere ciò che hanno i loro genitori. Leggevo articoli e molti di questi problemi, durante la pandemia, si sono ingigantiti. L’infelicità, l’ansia, il senso di perdita della speranza, di mancanza di aiuto. Ovviamente volevo catturare tutto questo e per questo ci ho fatto un film. È il motivo per cui in questa pellicola ci sono simboli e metafore, perché credo che quel senso di solitudine e di non comprensione sia difficile da rappresentare. Come lo rappresenti? Da qui nasce l’idea di raccontare tre giovani persi in questo strano freddo».

Silenzi, musica e metafore

Anche la mancanza di dialoghi contribuisce molto alla rappresentazione della solitudine.
«Credo che spesso le scene più forti siano quelle in cui c’è silenzio. Non sono un grande fan del cinema in cui si parla molto. Alcune potentissime emozioni vengono rappresentate meglio quando non si parla».

E poi così percepisci chiaramente anche la loro incapacità di connettersi.
«Molto di ciò che ho tentato di fare è stato dipingere queste emozioni e rappresentarle attraverso visual e paesaggi. Credo che il non detto sia dipinto dal senso dello spazio».

In questo, anche la musica è molto strategica. 
«Per la prima volta ho usato la musica in un film. I miei primi due film non avevano una colonna sonora, ma mentre scrivevo la sceneggiatura di The Breaking Ice sapevo già che necessitava di musica. Aveva bisogno del suono delle emozioni, dei paesaggi. Di un soundscape che rappresentasse ciò che i personaggi non dicono. Credo che molto del non detto sia proprio nella musica. Infatti il compositore è molto giovane, credo abbia 26 anni. È la prima volta che ha lavorato per un film, ma sapevo che era un musicista e che fosse di Singapore».

Come lo hai scovato?
«L’ho scoperto su Spotify e l’ho contattato sapendo che fosse il film giusto per lui. Era la persona giusta, è giovane e ha capito le emozioni del film. Abbiamo finito il film e poi lavorato alla musica: durante il montaggio, gli mandavamo le scene e dopo tre giorni lui ci mandava la musica. Il più delle volte era perfetto».

Un nord coreano in fuga

Come ti è venuta invece l’idea del fuggitivo nord coreano?
«È una storia vera. Quando ero a Yanji, ovunque andassi, c’erano questi poster. L’uomo era scappato dalla Corea del Nord, era imprigionato in Cina e poi è evaso. Offrivano tanti soldi e lo cercavano ovunque. Era pieno di guardie. Ricordo che, mentre giravamo, lo hanno trovato. Se non erro, la polizia l’ha rimandato in Corea del Nord e credo sia stato condannato a morte. L’intenzione era questa di creare questo parallelo tra una persona che fugge dalla Corea del Nord in cerca della libertà e tre giovani che possono già trovare la loro libertà, se solo si mettono in moto».