‘Il Babysitter’ e ‘Din Don Down’ vedono impegnato a teatro Paolo Ruffini che qui ci parla di arte, social, AI e bisogno di ritrovare umanità. L’intervista.
In tournée nei teatri italiani con ben due spettacoli, Paolo Ruffini porta in scena Il Babysitter e Din Don Down riempiendo le sale da Nord a Sud. Un successo che premia l’autenticità del racconto, dei suoi protagonisti e l’empatia che si costruisce con un pubblico sufficientemente sensibile. Esiste una formula aurea del successo? “Purtroppo non c’è, altrimenti tutti l’avrebbero mentre il successo è qualcosa che sfugge alle regole”, riflette il protagonista di questo viaggio artistico.
“Il mio non è un mestiere chirurgico, ahimè o per fortuna – prosegue – né si tratta di qualcosa che si può imparare del tutto. Certo, si può studiare e approfondire, ma ci sono fattori che non seguono regole matematiche precise. È una fortuna, ma è anche una sfida”. Recitare è, del resto, “è secondo me un mestiere meravigliosamente approssimativo. Se fai il medico, devi studiare per evitare che le persone stiano male o muoiano; se fai l’ingegnere, devi costruire ponti solidi. Nel nostro campo, invece, se non hai predisposizione o empatia verso il pubblico, lo studio può non bastare. Il successo spesso dipende anche da ciò che il pubblico sente di aver bisogno in un determinato periodo storico”.
“E fondamentalmente i bisogni del pubblico, poi, sono sempre abbastanza primari: ridere, piangere, emozionarsi. Saranno più o meno sempre questi almeno fino a quando non saremo governati solo da algoritmi e intelligenze artificiali. Per esempio, la risata nel tempo è cambiata mentre la commozione no; per distinguere un uomo da un robot dobbiamo capire se gli scenderà una lacrima quando vedrà una donna che allatta un bambino. È qualcosa che rimarrà sempre, invece la risata ha subito mutamenti, così come la paura e quindi un genere come l’horror. L’arte è sempre figlia del suo tempo e questo è un tempo, per certi aspetti, curioso, soprattutto per la comicità”.
Imparare sul palco: il teatro come esperienza umana
Ad affiancare sul palco Paolo Ruffini nei due spettacoli teatrali in calendario, due compagnie speciali, da cui si impara forse più di quanto non si pensi di insegnare. Da una parte, infatti, ne Il Babysitter ci sono tre piccoli interpreti (Isabel Aversa, Leonardo Zambelli e Lorenzo Pedrazzi) selezionati a partire dall’omonimo podcast. Dall’altra, in Din Don Down – Alla ricerca di (D)io gli attori della compagnia Up&Down, già protagonisti di uno show di successo. “Sono due spettacoli interessanti anzitutto perché non sono autoreferenziali. Quello che mi entusiasma, infatti, è fare uno spettacolo con bambini ma non per bambini, o meglio non solo per bambini. Né è uno spettacolo sulla disabilità dedicato a chi la vive magari in famiglia, ma coinvolge tutti”.
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“Il teatro è sempre stato frequentato da una certa élite, ma questi sono spettacoli che mi piace definire pop, cioè super commerciali”, prosegue Ruffini. “Mi piace l’idea che nel pubblico ci siano persone che magari vanno a vedere musical come Grease e poi si appassionano anche a Din Don Down. Questo significa smarcarsi dall’autoreferenzialità che rischia di essere un limite, abbattere le barriere e superare le nicchie”.
Con un pizzico di ironia, poi l’attore racconta: “I bambini e le persone con sindrome di down mi insegnano più di quanto io possa mai insegnare a loro. Con i colleghi con i cromosomi normali e un’età superiore ai 9 anni, tutto diventa più noioso e prevedibile. Mi piace mettermi nei guai e quindi mi lancio senza paracadute, imparando. È stimolante ed è molto bello. E poi si tratta di persone che, per esempio, non inizierebbero mai una guerra. Questo, oggi, è un dato non da poco. Sono convinto, anzi, che l’intelligenza sia sopravvalutata e a volte preferisco stare con persone più sensibili che intelligenti. Alla fine fanno meno danni. La cultura, invece, è tutta un’altra roba”.
Il teatro come antidoto alla pigrizia e all’algoritmo
Un tema ricorrente è, poi, quello della partecipazione e del tipo di pubblico a teatro. “Il primo vantaggio è non avere un pubblico necessariamente teatrale, che ha una ritualità. Ma sono persone che sentono l’evento: ogni spettacolo non è ripetibile e i miei sono degli opening più che degli spettacoli, cosa che ci rende abbastanza unici. Il teatro richiede impegno, fatica, attesa. Non è Netflix, non è delivery, per questo non ha la crisi che invece attraversa il cinema. Devi uscire di casa, comprare un biglietto mediamente più caro, immergerti in un’esperienza unica e irripetibile. Che dà soddisfazione. È questo che lo rende speciale: ogni spettacolo è diverso dall’altro. Il teatro combatte la pigrizia e l’aridità creativa di un mondo che ci impone la comodità e distanza. Come nel finale di Wall-E della Pixar”.
I social, invece, che ruolo hanno? “Dal punto di vista del percepito sono il male assoluto, nel senso che i follower non sono spettatori, non sono biglietti, ma sono qualcosa di effimero e caduco. Io ormai ho quasi un milione di followers e sono molto felice, ma dipende dal tipo di contenuto che metti e dal tipo di coerenza che hai con te stesso. Io cerco di mettere cose belle ma lì, a dominare, non c’è Dio o un editore, c’è un algoritmo per cui se anche metti una cosa brutta che funziona poi ne chiede ancora. È assurdo, per esempio, che una mamma che allotta un bambino venga bannata mentre un carro armato che passa sopra una macchina no”.
“E anche il nostro concetto di fede è completamente assoggettato a questa dinamica”, aggiunge Paolo Ruffini. “Il Babysitter arriva da un format che faccio proprio sui social con interviste a dei bambini e la domanda che si fa in questo periodo è su Babbo Natale. Ora, un bambino mi ha risposto non esiste perché ChatGPT gli ha detto così. Sarò troppo apocalittico, ma questo significa che siamo finiti come esseri umani… la trovo una dichiarazione di guerra al sogno. Le guerre non sono solo quelle con le bombe ma ci sono anche delle guerre che l’essere umano fa nei confronti di se stesso”.
“Questo è un attentato alla fantasia, una guerra contro l’anima, simile a quella descritta nella Storia Infinita: è facile comandare un popolo che non crede più a niente più è facile far smettere alle persone di credere, più è facile controllarle”.
La sfida del politicamente (s)corretto
Il divino è tra i temi focali di Din Don Down, trattato senza piegarsi all’altare del politicamente corretto. “All’inizio mi hanno detto che ero pazzo, che era vilipendio alla religione, blasfemia…”, confessa l’attore. “In realtà non è niente di tutto questo. Dio è molto meno permaloso di tante associazioni di categoria… lo spettacolo dice una cosa importante, ovvero che se siamo tutti figli di Dio e siamo a immagine e somiglianza sua, allora credo fortemente che anche le persone con disabilità siano la forma più scintillante straordinaria, nata della parola di Dio.
“Il messaggio dello show è fortemente religioso e, dalle bellissime standing ovation che abbiamo a fine spettacolo, credo che un genitore abbia voglia anche di ritrovare questo tipo di commozione. Abbiamo bisogno di perdonarci perché, alla fine, non dobbiamo assomigliare a un filtro di Instagram ma dobbiamo assomigliare noi stessi che siamo qualcosa di più alto, di più divino”. Ecco, allora, il ruolo dell’arte come antidoto e come forma di resistenza contro social e apparenza. Per ritrovare umanità.
Immagini da Ufficio Stampa / Kikapress