‘Maschile Plurale’ e il ‘Vangelo secondo Maria’ sono i lavori più recenti di Lidia Vitale che ci parla della missione comunicativa del cinema, di ruoli femminili e di giovani. La nostra intervista.
Attrice, regista, sceneggiatrice e acting coach, Lidia Vitale è tra i volti femminili più poliedrici del cinema italiano. Da Teresa Malatesta in Ti mangio il cuore nel 2022 ad Anna nel Vangelo secondo Maria di Paolo Zucca fino al ruolo di Gaia Trevis nel più recente Maschile Plurale (ora su Prime Video). Quelle di Vitale sono sempre donne la cui presenza sa fare rumore per caparbietà, coerenza, spirito volitivo e una certa dose di fermezza mai del tutto scontata. Non a caso, è a teatro dallo scorso 6 luglio con lo spettacolo Solo Anna, ispirato alla figura di Anna Magnani. Che di coraggio ha dato prova nel cinema quanto nella vita.
Dopo essere uscito nelle sale, è da poco disponibile in streaming Maschile Plurale che la vede nel cast. Che esperienza è stata?
Quando il regista Alessandro Guida mi ha chiamato, per prima cosa gli ho fatto i complimenti. I ragazzi del cast si erano sfidati con un super low budget per fare Maschile Singolare e avevano vinto la sfida. Io sono dalla parte di chi si sfida, di chi osa oltre che per i mezzi a disposizione proprio per la voglia di creare. Questa è stata la prima cosa che gli ho detto. La seconda è stata ‘sì’ senza aver neanche letto la sceneggiatura. Stare con questo gruppo di giovani che hanno voglia di fare e di stare insieme, di creare insieme, è stato molto bello. Così come l’atmosfera sul set.
La pellicola è arrivata su Prime Video nel mese del Pride. In che misura cinema e tv possono svolgere un ruolo civile/sociale su tematiche sensibili come i diritti LGBTQ+?
Il cinema è la settima arte e, come tutte le arti a mio avviso ha la missione di illuminare i cuori della gente comune. A maggior ragione sui temi LGBTQ+ ma, in generale, su qualunque tematica. L’importante è andare fino in fondo e non aver paura di dire le cose ad alta voce. Questa oggi, secondo me, è la necessità che abbiamo e il messaggio che possiamo dare attraverso il mezzo cinematografico. Come ha detto Al Pacino: la televisione è diventata così grande, facciamola meglio. Let’s Do It Better! Quindi, è proprio la settima arte che deve entrare necessariamente nella televisione per mantenere la sua funzione comunicativa su grandi temi. Questo, per me, è imprescindibile.
Passando a una pellicola molto diversa, l’abbiamo vista vestire i panni di Anna nel Vangelo Secondo Maria di Paolo Zucca. Quanto è stato impegnativo il ruolo e che cosa le ha insegnato?
Anna, la madre di Maria di Nazareth, è una di quelle donne che hanno introiettato il patriarcato. Ed è un ruolo che, destino vuole, mi è capitato spesso di interpretare in questi tempi. È una di quelle donne che sono rimaste ancorate a un modello patriarcale o sono a tal punto vittime di abuso da replicarlo. Anna ne è proprio un esempio mentre Maria è la prima donna che si ribella all’abuso, alla costrizione, all’ignoranza che rende schiavi. Rappresenta l’amore per la conoscenza come mezzo per liberarsi.
Quindi, interpretare Anna è stato proprio andare incontro a quello che io tanto combatto. Questo modello patriarcale che ancora in qualche modo continuiamo a subire tutte le volte che esprimiamo un giudizio verso un’altra donna. Tutte le volte che non la difendiamo se un uomo si permette certe cose, tutte le volte che sorridiamo quando qualcosa di brutale ci viene anche solo detto. È sempre doloroso andare in quella direzione ma, come attrice e artista, questa è la mia missione.
Da Anna a Teresa in Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa, donne dal carisma innegabile che lasciano un’impronta importante. Tra i ruoli che ha interpretato ce n’è uno di cui è più orgogliosa? Perché?
Sono orgogliosa di tutti i ruoli che ho interpretato perché ognuna di quelle donne mi ha regalato la possibilità di conoscere un pezzo in più di me. Il corpo, la voce e il respiro sono lo strumento che abbiamo in quanto esseri umani e, come tale, contiene tutte le corde e tutti i mondi. Ogni ruolo, quindi, mi ha dato la possibilità di andare a suonare una certa corda, a volte subita a volte più manifesta, a volte da correggere come essere umano. Ci sono personaggi che mi hanno insegnato a smussare certi aspetti del mio carattere e farmi trasformare insieme a loro, cambiando io stessa come persona. Questa è la grande magia di questo lavoro del quale Spielberg, una volta, ha detto ‘ho risparmiato venti anni di analisi con questo lavoro’. E un po’ è vero.
E poi c’è Anna Magnani, che porta in scena a teatro. Che donna e che attrice ci restituisce con questo spettacolo?
Solo Anna è un monologo in forma di dialogo quasi del tutto sensoriale nel senso che io passo dall’italiano all’inglese, da un personaggio all’altro e da un momento all’altro. Sono undici momenti della vita di Anna nei quali mi relaziono con Rossellini, Tennessee Williams, con un giornalista o con Massimo Serato in italiano. O con Kramer, che mi propone un testo in inglese. Cavalco questi momenti della vita di Anna cercando di andare sempre più a fondo a quella che è l’Anna intima. Quella che non conosciamo e non l’Anna strillona che nei film hanno voluto raccontare.
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Anna era una donna di grande cultura, diplomata all’Accademia di Santa Cecilia in pianoforte. Una donna che si è chiusa in casa a studiare le lingue per La rosa tatuata, con cui poi ha vinto l’Oscar. Era una donna che amava gli animali tanto che al Circeo viveva con cento galline, il cane, il gatto e un merlo. È questa l’Anna donna che cerco di raccontare, che ha combattuto per i diritti delle donne fino ad arrabbiarsi e ad ammalarsi per quanto sia arrabbiata per questo.
Il set e l’acting coach sono un osservatorio speciale sui giovani talenti, che nuova generazione di attori vede in Italia? E qual è lo stato di salute del cinema italiano anche rispetto all’attenzione per ruoli femminili di rilievo?
Credo che questi giovani, e soprattutto le ragazze, anche grazie a dei predecessori come me, oggi siano più liberi e più consapevoli. Vedo le ragazze che fanno rete in maniera più facile rispetto alla mia generazione. Personalmente ho cominciato a muovere i primi passi nella recitazione nel 1987 e, se adesso parliamo del Me Too, al tempo ci mettevano proprio una contro l’altra. Il sistema si basava tantissimo sull’aspetto fisico e io non ero proprio la bellezza canonica quindi ho sentita tanto questa cosa. Oggi finalmente ci sono ruoli che aprono a un femminile che non è solamente biondo e con gli occhi azzurri o per la faccia bellina che se ne sta buona da una parte. In questo senso c’è stata sicuramente un’apertura.
Dall’altra parte, c’è ancora tantissimo lavoro da fare anche perché ci sono metodologie, come quella che studio da 35 anni ormai conosciute ma per la quale all’inizio venivo anche presa in giro. E c’è moltissimo da fare soprattutto sui personaggi femminili in Italia nel senso che credo ci sia bisogno di più mani femminili nella scrittura dei ruoli, a cui venga lasciato grande margine di libertà proprio perché conoscono l’essere donna.
Le produzioni devono essere formate anche tecnicamente da donne che sappiano dare uno sguardo femminile. È bellissimo l’esempio di Valeria Golino, che ha fatto un lavoro pazzesco con L’arte della gioia a dimostrazione che è possibile raccontare il femminile da un punto di vista diverso, ovvero da dentro. Insomma, ci sono tanti personaggi maschili da esplorare e possiamo dividerceli benissimo tra registi e registe.
C’è bisogno ancora di fare questo scartino in avanti ma ci stiamo lavorando e penso ad attrici che stanno emergendo come Margherita Vicario ma anche a Paola Cortellesi che ha dimostrato che una donna può conquistare il box office. Come disse una volta Kate Blanchette, quando vinse [l’Oscar come Miglior attrice protagonista] per Blue Jasmine, credo che possiamo portare la gente al cinema perché di fatto sono le donne che spesso portano la gente al cinema. Nonostante si siano fatti dei passi in avanti c’è ancora un po’ di strada da fare ma sono ottimista.
Quanto, nel suo lavoro e nell’arte in generale, è stimolante il confronto generazionale?
Lo è sempre e comunque. Sono appena andata in scena con un testo scritto e prodotto da mia figlia Blu Yoshimi, in cui ho fatto un ruolo secondario. Ho interpretato Capitan Uncino in questa rivisitazione, per me geniale, di Peter Pan. È importante che noi più grandi ci mettiamo al servizio ed è una delle cose che io faccio sempre, nelle opere prime e con i cortometraggi. Mi metto al servizio dei giovani perché è importante che noi diamo loro una mano non solo come apporto commerciale ma proprio per avere un confronto.
Bisogna rimanere aperti e lasciare anche che sbaglino, ma noi adulti dobbiamo essere con loro, a sostegno. È fondamentale anche perché noi stessi impariamo da loro e dalla libertà con cui fanno le cose a capofitto, con quello spirito giovane che va assolutamente mantenuto. Lo spirito non deve invecchiare anzi deve rimanere giovane, come un piccolo bambino che si esprime sempre.
Che cosa consiglierebbe a un giovane che oggi ambisce a una carriera longeva come la sua?
Allora, ci sono quelli che hanno la fortuna di fare il botto e a loro dico di stare attenti perché da zero a cento è facile ma lo è altrettanto da cento a zero. Quindi, visto che avete avuto la buona fortuna, coltivate il vostro strumento e investite quello che vi è arrivato nello studio e nell’evolvervi. Vale per tutti e il rifiuto fa parte di un percorso: io non finirò mai di essere grata del fatto che il successo mi stia arrivando in tarda età.
Oggi che ho 51 (e non è manco troppo tardi; sorride, ndr) ho gli strumenti per gestirlo e sono in un momento del mio percorso individuale che mi permette di saperne approfittare e fare qualcosa anche in più, soprattutto per me stessa. A me il cinema ha detto tanti no, il primo film l’ho fatto a 26 anni e il mondo diceva no ma io ho sempre continuato a dire sì perché non potevo fare a meno di esprimermi. Quindi, è importante basare sempre il lavoro su questa urgenza e viverla tutti i giorni. La tecnologia, poi, ci permette di piazzarci davanti a un telefonino, prendere un monologo e portarlo in scena da soli.
C’è un ruolo che ancora le manca e che le piacerebbe interpretare?
Uh, ce ne sono una marea. Per esempio, vorrei interpretare una donna che si prende il rischio dell’amore in età adulta. Adesso, oltre al problema del gender, adesso abbiamo anche il problema dell’età e su questo c’è un po’ una reticenza. Sembra che dopo una certa età noi donne non abbiamo più una vita ma facciamo delle cose pazzesche a tutte le età. Io scalo le montagne e vado a fare trekking d’alta quota, mi faccio viaggi avventurosi da sola e spero di incontrare storie d’amore inaspettate.
La passione c’è, ma mentre gli uomini li vedi con delle ragazzine nei film noi donne, non si sa perché, dobbiamo ancora faticare a farci spazio anche in questo. C’è del lavoro da fare su questo terreno però mi piacerebbe raccontare una bella storia d’amore di una donna nei suoi cinquant’anni. E mi piacerebbe farlo anche perché permetterebbe a me di esplorare un aspetto che poche volte è stato esplorato al cinema, essere vittime della propria faccia.
Foto di Azzurra Primavera da Ufficio Stampa / Kikapress / Prime Video