Davide Van De Sfroos ci racconta il suo ‘Van De Best’, tra viaggi a ritroso e posizioni antitetiche (o forse no?).

L’8 novembre è uscito Van De Best, la raccolta di Davide Van De Sfroos per festeggiare i suoi 25 anni di carriera solista. In uscita per BMG/MyNina, Van De Best contiene 49 grandi successi pubblicati dal 1999 al 2015 e reincisi per poterli rendere disponibili nuovamente al pubblico. Ce li racconta il cantautore.

Con questa raccolta ci regali anche i tuoi preziosi taccuini.
«Sì, il taccuino è stata una ribellione al solito foglietto con quattro fotografie striminzite. Se uno si prende la briga di comperare i vinili con il costo che hanno, perché c’è dentro un lavoro, troverà dentro oltre a un cartoncino autografato anche qualcosa che ha sempre fatto parte della mia lista dei desideri. Ovvero arrivare un giorno a fare un libro. Ho mescolato proprio questa visione tridimensionale delle situazioni e dell’ispirazione, delle passeggiate, di tutto quello che ha fatto parte della mia poetica».

Sei soddisfatto?
«Sono riuscito, foglio per foglio, a realizzare queste 28 pagine. Quando ho visto il libro fatto e finito, mi sono riempito di orgoglio. Finalmente posso dimostrare all’ascoltatore di condividere con lui qualcosa che di solito è sempre molto intimo». 

Sono i celebri taccuini che ti porti sempre dietro, no?
«Sì, ci sono persone che hanno dilapidato il patrimonio tra donne e gioco d’azzardo, gioielli e droga. Io ho speso tutto in taccuini, adesso poi li fanno sempre più belli. Non ne finisco mai uno, però non resisto e tra l’altro continuano a regalarmene sempre di più belli. Mi piacciono. Vedi queste pagine bianche che sono sempre affamate e tu con la penna devi in qualche maniera riempirle. La penna però non basta. Ci vuole anche la vecchia Polaroid, il disegno, l’acquerello, la goccia di vino che ci cade sopra. Ecco, questi sono i moderni totem di Davide Van De Sfroos».

Anche nella scelta di rilasciare inizialmente solo il disco fisico, c’è una posizione un po’ antitetica. O no?
«Sì all’inizio con BMG si sposa sempre, per qualche mese, il vantaggio per chi rimane il compratore dei dischi. Poi a un certo punto si trova tutto ovviamente sulle piattaforme. Liberi tutti. Però almeno per i primi mesi è a disposizione di chi ama veramente il disco. So che non tutti hanno le tasche per una spesa simile. Ma è un omaggio a chi veramente mi ha dimostrato affetto nel corso degli anni e mi ha permesso di arrivare fin qui perché ha creduto in un vinile. Il vinile non è mai stato di moda, ma non è neanche mai scaduto dalla moda».

Un po’ come il folk.
«Esatto. Il folk non è mai stata moda. Anche quando diventa super pop o mainstream. Però, in qualunque regione di Italia o del mondo, quando salta fuori uno strumento folk – una fisarmonica o un violino – hai subito una festa di piazza o in una osteria. Questo aspetto non può staccarsi all’uomo. Ecco il grande vantaggio». 

È musica di condivisione?
«Non credo di essere in antitesi con tutto ciò che è moderno. Tra i ragazzi ci sono veri e propri artisti, che cavalcano il loro momento. Sono poeti metropolitani, che siano trap o cantautori. E poi ci sono quelli che ci stanno provando, come è sempre capitato, magari favoriti soltanto dall’immagine o dalla fama. Ognuno però è abbastanza libero oggi di sbirciare e portare sul piatto quello che gli interessa. Non sono mai stato uno di quelli che doveva rimanere dietro la barriera con in mano il disco di Bob Dylan e tutto quello che è venuto dopo non andava bene. Anzi, oggi la musica è piena di roba e ci sono talmente tanti artisti che sono in grado di fare cose incredibili che non riusciamo nemmeno a seguirli tutti. È questa la verità». 

49 canzoni non sono poche, ma dato che ci sono inevitabilmente grandi esclusi, volevo capire cosa ha guidato la tua selezione.
«È stato tutto molto naturale. Sapevo che non avrei mai potuto realizzare una composizione eterna. Magari la prossima volta faremo il best of the best. Abbiamo capito che alcune canzoni non potevano essere escluse, perché solo nominarle ti fa comprendere che sono diventate sempreverdi. Poi ci sono quelle che son state troppo dimenticate nel tempo e che avevano invece un grande valore. Poi ci sono quelle più intime e quelle che parlano degli altri. Ho voluto mescolare gli stili e arrivare anche a quelle cantate solo con chitarra e voce. Quando ero in fase di registrazione, non mi fermavo mai. Però 50 non c’entravano per via dei vinili. Allora l’ultima sarà la canzone che non c’è. Ognuno canterà quella che preferisce». 

E per Davide Van De Sfroos che viaggio è stato?
«Sicuramente è stato un viaggio a ritroso e, come tutti i viaggi a ritroso, diventano anche psicoanalitici. È stata un’immersione in cui cantavo decine di brani al giorno, però andavano via che era un piacere. La gente mi diceva Se sei stanco continuiamo domani. In una giornata rivedevo tutta la mia vita musicale. E, mentre sei chiuso con le cuffie, nel tuo mondo, concentrato soltanto sulla canzone, ecco che tante cose si manifestano. Ed è stato un un bel viaggio in profondità». 

C’è qualche brano che anche tu stesso ti sei concesso di riscoprire?
«Il re del giardino arrangiato con il pianoforte, per esempio. O Grazie ragazzi che era ormai una specie di singolo vagante e non era mai stato incluso in niente. Ho rivisto il momento in cui sono state create». 

Foto di Alessio Pizzicanella