Il rapper bolognese DrefGold è tornato con il suo quarto album di inediti, ‘Goblin’, da venerdì 8 novembre per Epic/Sony Music Italy. Un lavoro che, da una parte, conferma la penna affilata del rapper e, dall’altra, racconta una maturazione che passa anche attraverso un suono innovativo e collaborazioni di prestigio. Da Tedua a Bresh, da Capo Plaza a Tony Effe. Ci racconta di più lo stesso DrefGold in questa nostra intervista.
A tre anni da ‘Elo Overtime’ torni con ‘Goblin’: in che arco di tempo hai lavorato il disco e come ha preso forma a mano a mano il progetto?
Il disco, diciamo, inizia sempre ad essere lavorato alla fine di quello precedente quindi per certi versi non mi sono mai fermato nella produzione musicale. Realmente, però, il periodo, il punto di inizio, in cui ‘Goblin’ è stato pensato, concepito, trovata la direzione, l’immaginario e tutto ciò che riguarda la scelta dei pezzi fondamentali per il disco – anche, banalmente, i colori – risale a circa un anno e mezzo fa, più o meno. È stato per certi versi un processo complesso anche se meno nella lavorazione vera e propria, quando dici “ok, quindi…” e poi si inizia davvero a definire tutto.
Fra le tracce del disco ce n’è una che, prima delle altre, ha definito meglio la direzione musicale dell’intero lavoro? Quale e perché?
Non è stato uno dei primi pezzi che ho avuto in mano ma quando ho fatto Ghostbusters, ho pensato: “Cavolo, ok, ora hai proprio l’album per quello che per me deve essere la hit dei Goblin”. Poi ci sono anche pezzi che, a mio avviso, sono più hit per il mercato musicale di oggi. Però quando ho fatto Ghostbusters, ho capito che quello era uno dei filoni portanti da seguire.
Svariate collaborazioni, se dovessi dare una definizione per ciascuna quale sarebbe?
Allora, sicuramente Capo Plaza è la persona, tra questi featuring, che conosco da più tempo. Ai tempi, quando c’era ancora solo Facebook e non si usava Instagram, lui già condivideva i miei pezzi sul suo profilo senza nemmeno conoscermi. C’è davvero un rapporto di lunga data tra noi.
Tony Effe è come me del segno del toro: io sono nato il 16 maggio, lui il 17 e spesso mi è capitato di riflettermi in lui su certe cose. E dire: “Cavolo, ogni tanto ragioniamo in modo simile”. Così, quando siamo andati in studio per lavorare al pezzo ho sentito subito una sintonia e lui si è gasato subito.
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Tony Boy è il mio fratellino piccolo, è sempre stato un fan. Una volta è persino venuto a un mio live a Bologna senza nemmeno dirmelo. C’è super rispetto anche al di là della musica. Con Bresh e Tedua, invece, ci vediamo spesso perché fanno parte di una cerchia di amici con cui capita di incontrarci, magari di sera, e se c’è uno, spesso c’è anche l’altro. Sono due persone di cuore. Con Tedua ho un rapporto legato più al rap, mentre di Bresh sono un grande fan, sia della sua musica sia del fatto che lui non sia un rapper convenzionale, ma stia facendo qualcosa che mi sembra un po’ il nuovo cantautorato italiano. Io rivedo in Genova cose che abbiamo anche noi a Bologna, come fosse una sorta di gemellaggio.
Infine, non poteva mancare il buon Pyrex. Con lui c’è questa cosa: a volte mi fa ridere così tanto che mi fanno male gli addominali. Abbiamo una comicità simile, ci fanno ridere le stesse cose – tipo la comicità americana, situazioni stupide legate al mondo del rap. Lo rispetto tantissimo e ammiro il suo percorso; per me è uno dei pionieri della trap, quindi non poteva non esserci in questo progetto.
Nei tuoi testi non le hai mai mandate a dire e anche in questi brani confermi il tuo approccio diretto. Quali sono i sassolini che ti sei tolto dalla scarpa che rivendichi con più orgoglio?
Allora, di certo Junky Bar è uno dei pezzi che più rappresenta l’anima del disco, quello che sento più mio. In quel pezzo lì, e anche in altri, ma in particolare in quello, sono riuscito finalmente a essere un po’ più sincero. Non è tanto un “togliersi un sassolino dalla scarpa”, ma più una possibilità di andare oltre al bisogno di far sembrare tutto bello, cosa che comunque cerco sempre di fare, perché per me lo spettacolo è anche questo. Come a scuola, se sei un professore e stai male, devi comunque fare lezione ai tuoi alunni.
Quindi non metterò mai al primo posto i miei problemi personali, non li porterò nella mia musica a meno che non diventino parte dell’obiettivo artistico. Però, in Junky Bar, dico cose che penso e che viviamo tutti, soprattutto nel mondo della musica, che può essere molto spietato.
Viviamo in una società e in un ambiente in cui la gente spesso non si fa problemi a girarti le spalle, anche a livelli altissimi, e a comportarsi in modi che io, essendo di natura piuttosto pura e genuina, trovo difficili da accettare. Nonostante sia da un po’ di tempo nel mondo della musica, è ancora crudele per me. In Junky Bar, penso che si possa percepire un po’ questo mio modo di sentire.
‘Goblin’ ha un forte impatto visual, dalla copertina all’immaginario di riferimento. Come lo hai pensato, a partire dal titolo stesso?
Allora, l’immaginario era qualcosa che avevo già in mente da prima e il Goblin era in lizza, diciamo, con altri due personaggi, ovvero il Gremlin e i Goonies in generale, ma in particolare Sloth dei Goonies. Quest’immaginario di tre personaggi rappresenta un po’ il Junky World, il mondo del rap e il mondo in cui viviamo oggi, dove ognuno di loro ricopre un ruolo ed è una di queste figure.
Il Goblin, però, ha un posto speciale nella mia ‘catena sociale’ – nella mia piramide, infatti, è in cima, la figura più alta. Sono personaggi che mi affascinano, e sono anche abbastanza fiero di averlo riportato alla luce, anche se sono solo una piccola goccia nell’oceano di chi già conosce il Goblin. Io, però, lo vedo come un ‘nemico buono’. Non so come dire, ma quando guardi certi film c’è sempre un nemico che non vorresti incontrare mai; invece a me, con il Goblin, farebbe piacere scambiare due chiacchiere, mi è sempre rimasto impresso in modo positivo. È diventato un simbolo di rivalsa per me, anche dopo questo periodo di pausa in cui non ho pubblicato un album.
Dopo il boom di qualche anno fa, anche in classifica, la trap in Italia si è assestata. Come vedi la scena e il pubblico di oggi? Che spazio c’è per nuovi nomi in un panorama affollato ormai di artisti affermati?
Secondo me, fortunatamente ci sono sempre più artisti che emergono, e ce ne saranno ancora di più in futuro. È così che funzionano le cose: non la vedo in maniera negativa, come se ci fosse un limite e per fare spazio a cinque nuovi artisti bisogna toglierne altri cinque. Semplicemente, lo spazio si espande. Nel 2017, ad esempio, bastavano 700.000 streaming per arrivare primi in classifica, mentre oggi ce ne vogliono 2 milioni o più per ottenere lo stesso risultato. Il pubblico è aumentato, lo streaming è aumentato, sia nel rap che in altri generi.
Quindi, secondo me, finché non arriveremo al punto in cui ogni due giorni compare un artista di cui nessuno sa niente, viso completamente nuovo (anche se non succede mai proprio così), va bene. Di solito, quando uno diventa famoso, magari il grande pubblico non lo conosceva, ma chi è dentro la musica sapeva già chi fosse e perché.
Rispetto al tuo primo album ‘Kanaglia’ che artista pensi di essere diventato?
Rispetto a ‘Kanaglia’, oggi una parte di me vuole ancora conservare quell’anima, con la stessa spensieratezza e inconsapevolezza. Capisco che, a volte, essere troppo consapevole di cosa stai facendo e di come lo stai facendo può, in certi casi, intaccare l’arte. Però, in questo disco, mi sento sicuramente più maturo, forse perché sono passati sei, sette anni che mi hanno fatto vivere e capire tante cose della vita, della musica e dei sentimenti.
Non voglio sentirmi già al 100% della mia maturità, perché questo è un percorso. È normale che, guardando indietro, mi accorgo che magari certe cose oggi non le direi più, ma non rinnego di averle dette allora. Probabilmente tra tre o quattro anni, o dopo altri tre o quattro album, avrò ancora cambiato qualcosa.
Immagini da Ufficio Stampa