Si intitola through the telescope l’album di debutto della cantautrice indie-folk-rock slovacca Karin Ann. Anticipato dal singolo i don’t believe in god, il disco mostra tutte le sfumature dell’artista, che qui si muove tra dilemmi spirituali e libertà, in qualsiasi sua forma. In occasione del Gay Pride, Karin – attivista e sostenitrice dei diritti LGBTQA+ – ha anche regalato un murale a Milano, in zona NoLo, realizzato dalla crew di street artist del laboratorio creativo Fatto da YO che hanno interpretato e reinventato il volto della giovane cantante. La nostra intervista.
Karin Ann racconta through the telescope: l’intervista
Se penso a through the telescope – al titolo e alla cover – tutto sembra estremamente onirico. Cosa ti ha ispirato e cosa rappresenta per te questo progetto?
«Per il titolo e la cover i motivi sono due. In primo luogo, ho notato che stavo usando molto un immaginario celestiale nei testi di questo album, così come in altri brani che alla fine non ho inserito ma che ho scritto nello stesso periodo in cui lavoravo al disco. La seconda ragione è che, quando ho finito l’album e mi son messa a pensare al titolo, mi sono accorta di aver parlato di tante esperienze diverse della mia vita in questo progetto. Esperienze fatte anche in periodi ed età differenti. Stavo processando queste diverse sensazioni che non sapevo di non aver mai metabolizzato fino ad ora».
Un bel processo, immagino.
«Sì, ma nello stesso tempo tante di queste cose sono accadute così tanto tempo fa da potermi definire una persona diversa. In un certo senso, mi sono sentita distaccata da alcuni di questi episodi ora che sono più grande. Mi è sembrato quasi di guardarli da lontano, come se fossero un film. Proprio come quando guardi il cielo attraverso un telescopio».
Cosa puoi dirmi dell’idea e della realizzazione del video di i don’t believe in god?
«Sapevo che avrei lavorato a questo video, come a quello di false gold, con Tusk. Ci avevo già lavorato per altri tre miei video in passato. Amo lavorare con loro perché è sempre un processo collaborativo e rispettano ciò che voglio e la mia visione. Quando abbiamo dovuto pensare a questi due video, stavamo già parlando dei temi delle canzoni: per false gold sono l’inganno e il tradimento, mentre per i don’t believe in god è il trauma religioso. Parlavamo di come renderli a livello visivo e ho proposto i processi alle streghe. Mi ricordavano The Crucible, che ero andata a vedere appena un paio di mesi prima. A Tusk l’idea è molto piaciuta, quindi ci siamo veramente immersi nel progetto, studiando situazioni specifiche e di cosa parlasse esattamente la canzone».
Avete studiato, insomma.
«Sì, ma non volevamo rappresentare il concept del processo alle streghe come è già stato fatto tante volte e da qui nasce l’idea della realtà alternativa creata dallo stato dissociativo del personaggio del video. Questa realtà mostra un mondo molto più gentile e dalla mente aperta, l’amore è verso chiunque indipendentemente da razza, religione, sessualità o genere. Nel video il contrasto è proprio col mondo reale pieno di giudizio, pregiudizio e dolore. Siamo anche riusciti a coinvolgere tantissime persone della comunità LGBTQA+ nel cast. C’è molto simbolismo e tanti easter egg, è stato un sogno realizzare entrambi i video».
Il sound di questo album è incredibile. Ho letto che hai lavorato con Benjamin Lazar Davis e Will Graefe degli Okkervil River. Come avete lavorato in studio?
«È stato un sogno lavorare con loro! Sono genuinamente fantastici, per loro provo ora un amore molto profondo. Non sapevo cosa aspettarmi, in realtà. In passato ho lavorato con persone che non capivano totalmente le mie intenzioni su alcuni aspetti. Poi ho iniziato che ero molto giovane ed era difficile a volte farmi valere. Non fraintendermi: ho lavorato con persone incredibili e il processo è stato sempre piacevole, ho sempre imparato tanto. Ma con Ben e Will ci siamo subito trovati sul piano creativo, non mi era mai accaduto prima. Ho provato rispetto per loro e mi hanno concesso la libertà di sperimentare con vari suoni. Se volevo cambiare qualcosa a metà strada, me lo lasciavano fare perché tutti sapevamo che stavamo mettendo in prima linea l’integrità artistica».
Deve essere una bella sensazione.
«Voglio dire… c’è un brano nell’album che è lungo quasi 7 minuti. Non tutti me l’avrebbero lasciato fare! Ho provato rispetto e amore anche per la mia scrittura, su cui non mi sono mai sentita sicura. In fin dei conti, è stato un processo incredibile che mi ha insegnato tanto e a cui tengo molto. Ha cambiato la mia prospettiva sulla musica e sulla scrittura. E anche sull’essere in studio, sul creare e registrare. Li ho incontrati in un periodo molto difficile della mia vita e lavorare con loro mi ha aiutato molto. Quindi hanno cambiato la mia vita, li considero speciali».
C’è molto amore nei tuoi testi, ma è sempre accompagnato da un’ombra di malinconia. I brani sono come piccole poesie e mi chiedevo se ciò che scrivi sia in qualche modo influenzato dalle sonorità.
«Di solito scrivo prima i testi e poi penso alla melodia e alla produzione. Molto raramente parto dalla musica».
L’ultima canzone, my best work of art, sembra invece positiva. È per questo che si trova alla fine della tracklist?
«Non so se la definirei positiva, ad essere onesta (ride, ndr). Il motivo per cui chiude la tracklist è perché sembra parlare della fine di uno schema e di un ciclo della mia vita. C’è poi un enorme spazio alla fine della traccia e ho sempre voluto che nel mio album ci fossero intro e outro. Ci ha dato modo quindi di inserire lì l’outro che tiene insieme l’intero album».
Ultima curiosità: cosa puoi dirmi del murale a Milano?
«È stata una sorpresa anche per me. Io e la crew di street artist Fatto da Yo abbiamo un amico in comune che ha chiesto loro di creare un murale per celebrare l’uscita del mio album di debutto. È stato bellissimo vedere il processo di creazione. E il risultato finale è così bello che sono molto orgogliosa di questi giovani artisti. E grata per il progetto».
Foto di Christina Chi Craig