“Ho guardato attorno a me e ho visto un panorama desolante”. Sono queste le prime parole con le quali Luciano Ligabue introduce ‘Dedicato a noi’, il suo nuovo album dal 22 settembre. Un lavoro che si guarda attorno per ritrovare un’identità personale che non si vuole esaurire in un io isolato ma cerca il ‘noi’. Un ‘noi’ che è riconoscersi, sentirsi insieme, condividere, guardare nella stessa direzione superando una contingenza che fa paura e disorienta trovando appiglio nella reciprocità e in ciò che di stabile si può trovare in questo mondo.
Da dove nasce il bisogno di un progetto che guarda al ‘noi’?
Questo è il periodo peggiore che io ricordi, tra la pandemia, la guerra nel nostro continente, le catastrofi sempre peggiori legate ai cambiamenti climatici. E ancora, una cronaca nera che è stata terribile con femminicidi e stupri che segnano un’arretratezza culturale importante. Aggiungo anche i ragazzi della Generazione Z che allo psicologo confessano di non avere un’idea di futuro… perché forse non ne hanno bisogno e forse non ne hanno voglia. È evidente che questo insieme ci fotografa isolati. Siamo isolati dalle paure, questo è quello che percepisco. Quindi, a maggior ragione sento il bisogno di un noi e ho avuto anche il bisogno di fare una specie di chiamata.
I valori di un ‘noi’ in cui riconoscersi
Chi è il ‘noi’ a cui si riferisce e a cui si appella?
In questo album ci sono diversi noi. Il primo, certo, è il noi della coppia e subito dopo c’è quello del nucleo familiare. Ma c’è anche un noi da cui non riesco a esimermi quando salgo su un palco. Ed è il momento cruciale nel quale, per due ore, mi sento all’interno di un noi che condivide gli stessi valori e principi che canto. Infine, c’è un noi un po’ più complicato da definire che, secondo me, è più o meno parente di quello in Non è tempo per noi. È quello che, ancora oggi, è composto di gente che si sente fuori moda, fuori posto, insomma sempre fuori da e di questo noi io sono soggetto partecipante. È un noi che ha bisogno di ritrovarsi e di sentire in qualche modo che ciò che ha in comune va difeso, protetto, almeno per provare a dare un progetto o una destinazione a chi siamo.
A differenza di Non è tempo per noi che era una canzone piuttosto sconsolata, qui c’è un Dedicato a noi perché credo che questo noi non meriti solo questo album ma il tempo necessario. Ovvero che noi stessi ci dedichiamo il tempo necessario. Quindi, quel noi è sicuramente un noi salvifico anche perché di sicuro non è salvifico l’io isolato. Poi penso che ognuno debba essere impegnato a fare la sua parte, ma il noi serve.
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Ha parlato di valori: quali sono quelli che ritrova nel suo ‘noi’?
Fra i valori che io metto al centro di quel noi c’è sicuramente quello della pace. Quando uscì Il mio nome è mai più (1999, ndr) non mi sarei mai immaginato la situazione dell’Europa e del mondo oggi, è un dei motivi per cui un po’ ci si sconsola. Mi interrogo soprattutto su come mai non riusciamo, da essere umani, a condividere. E una delle risposte arriva dalla statistica, quando leggi che meno di 100 soggetti hanno lo stesso patrimonio di 4 miliardi di persone. Allora, lì capisci che le leve di questo mondo le tirano in pochissimi, che il futuro a cui andiamo incontro è gestito da pochissimi che non hanno a cuore il bene comune. Tutto il resto arriva a cascata, in un sistema fatto di avidità, ingordigia e di non sapersi accontentare mai.
Da qui anche l’appello all’individuo.
Sì, ogni disco è sempre un appello e ‘Dedicato a noi’ è un appello soprattutto a cercarsi l’un l’altro e a non rassegnarsi, anche se il quadro attorno è desolante. Bisogna cercarsi e non mollare.
Amori e altre storie
Questo album si apre con Così come sei che è una sorta di sequel di Salviamoci la pelle (1991): che amore racconti in queste nuove tracce?
Sai, avventurarsi nelle canzoni d’amore è sempre un azzardo perché ce sono miliardi. E tra queste alcuni milioni sono bellissime. Quindi il campionato è difficile. Per quanto riguarda i protagonisti dei due brani che citi, li avevo lasciati trent’anni fa che scappavano da famiglie disfunzionali, da un paese che stava loro troppo stretto e da un destino che non apparteneva loro. Quindi ho fatto il tifo per loro ma non sapevo cosa fosse successo dopo, Quindi sono andato a vedere come stavano e li ho trovati in formissima, con i figli ormai indipendenti. Di loro mi resta quest’immagine matura, che forse ha a che fare anche un po’ col finale di Radiofreccia, con i personaggi di spalle e una coperta sulle spalle a guardare con calma la città. A proposito di amore, poi, sono felice anche del brano La metà della mela perché, raccontando anche le parti meno facili della storia con mia moglie, oggi dico anche che ci siamo trovati, abbiamo messo in comune due solitudini.
Ascoltando le tracce, anche alla luce di quello che ha appena raccontato, mi sembra che in più punti le canzoni raccontino il bisogno di trovare qualcosa di durabile nel tempo. E in quanto tale rassicurante in un mondo così liquido e sconfortante. Penso in particolare al brano Una canzone senza tempo. È cosi?
Hai colto un punto molto preciso. Una canzone senza tempo parla di due persone che hanno vissuto qualcosa di molto importante ma che hanno bisogno anche di certezze rispetto alla loro storia, come a voler contare sul fatto che la loro storia duri per sempre, sia eterna. E il posto perfetto è Roma, la città eterna in cui la storia che hai attorno ti fa pensare che sia una città senza tempo. Manca solo che sul taxi ci sia in sottofondo della radio un evergreen, una canzone senza tempo a fare le proprie a corollario a tutto quanto. Quindi, sì c’è anche il bisogno di sentirsi rassicurati uno con l’altro anche pensando che le cose possano non cambiare pure sapendo in realtà che questo è impossibile.
Questa voglia di ritrovare la fine di alcune storie quanto si lega al suo rapporto col tempo?
Ho cominciato a fare questo mestiere a trent’anni, il che vuol dire che probabilmente per tanti anni ho compresso dentro di me un bisogno di dire delle cose che non sapevo di avere così intensamente. Da allora, tolto il tappo con il mio primo album, ho fatto tantissimo, troppo. Ho esagerato tra canzoni, tour, film, racconti, un romanzo, una raccolta di poesie, un musical. Di tutto e di più. In pratica, non ho mai avuto il tempo e, probabilmente la voglia, di guardare al passato; andavo avanti e basta. Poi scoppia la pandemia e sono costretto a guardarmi indietro: è stato il primo momento in cui, fermandomi, ho dovuto fare i conti con quello che ho fatto, una cosa nuova per me. ‘Dedicato a noi’’ è il primo album che faccio essendo più consapevole del percorso, mettendo un di più la testa anche sugli effetti che tutto ciò che avevo fatto aveva prodotto.
Prima accennava al fatto di essersi spesso sentito fuori dalle mode, ancora oggi è così?
Per natura ho sempre avuto la tendenza a sentirmi un po’ fuori dalle cose, fuori dalle mode e dalle tendenze. A volte i miei amici mi prendevano anche in giro per questo, non avevo mai addosso qualcosa che fosse al passo con la moda. Ho sempre avuto il bisogno di un pensiero autonomo e di sentirmi me stesso, nel bene e nel male. Non è un caso che non ho mai preso la tessera di nessun partito, proprio per un mio bisogno di forte autonomia.
L’arte che ruolo può avere oggi nella società?
L’arte di per sé fa quello che può fare, è quello che poi ne fa la gente che ci può salvare. Un conto è produrre e veicolare un contenuto, un conto è l’uso che ne viene fatto.
‘Dedicato a noi’ , dalla copertina al palco
Tornando più strettamente a questo nuovo disco, come è stata pensata questa copertina, che è piena di elementi ma ha un cuore contemplativo?
Ti spiego come procediamo di solito. Chiamo il grafico, Paolino (Paolo De Francesco, ndr), e gli faccio ascoltare più volte l’album dicendogli le mie intenzioni e il quadro d’insieme. A quel punto, con queste indicazioni, si mette a lavorare e si presenta con questa cover, per me bellissima, di cui posso darti la mia interpretazione. Al centro di ‘Dedicato a noi’ c’è un cuore rappresentato come nelle tavole anatomiche, quindi, dissezionato in modo che vediamo che cosa c’è dentro. All’interno, per come lo leggo io, sono due elementi fondamentali. Quel ragazzo che sta facendo la verticale al mare esprime una grande vitalità; e in ‘Dedicato a noi’ c’è grande vitalità secondo me. Poi, attenzione, c’è il nonnetto di spalle: non so lo abbia disegnato apposta così ma c’era anche sulla copertina di ‘Su e giù da un palco’, proprio con un cappello giallo. Ecco, il nonnetto contempla le montagne all’orizzonte, di spalle, e questo album nasce dalla mia contemplazione di quello che vedevo attorno a me, del mio bisogno di affidarmi a un noi. Fuori, invece, il caos totale.
Passando ai suoni, come ha voluto lavorare per ‘Dedicato a noi’?
Allora, è un disco che parte abbastanza da lontano ed è l’album per cui siamo stati di più in studio nella mia storia. Disorientati dalla pandemia, a un certo punto abbiamo pensato di andare in studio senza avere un progetto preciso. Ho comunicato a tirare fuori delle canzoni che avevo già scritto e siamo arrivati a una trentina, fino alle undici che poi compongono questo album. Diciamo che si sono fatte larghe loro, un po’ per contenuti e un po’ per il quadro d’insieme che andavano a comporre. A guidarmi, fin dall’inizio, è stato il desiderio di essere un cantautore con il suono di una band e a questa cosa non ho mai rinunciato. Quindi, in questo album senti due chitarre che non fanno gli accordi ma parti melodiche. Quasi a rompere i *** al cantante che sta cantando, a distrarre. Però ci piace così. Mi piace questa idea di musica e siamo consapevolissimi che il mondo va in tutt’altra direzione. Però questo è quello che facciamo noi e quello che ci piace fare. Abbiamo la libertà di fare quello che amiamo, poi quello che succederà lo vedremo.
È abbastanza refrattario ai social: com’è il tuo rapporto oggi?
In generale, non vivo il commentificio sui social perché credo che non aiuti in genere, anzi è un potere sbagliato. Se uno non sa bene quello di cui si sta parlando non dovrebbe mai commentare e mi sembra che questa regola sia poco seguita.
Da un disco lungamente lavorato in studio al tour.
Non vedo l’ora e vorrei riuscire a portare sul palco tutte le canzoni, a turno. Ovviamente non posso farle tutte quante ogni sera ma le farò girare e forse addirittura, se riesco, vorrei poter cambiare la scaletta a ogni concerto.
Foto di Maurizio Bresciani da Ufficio Stampa Parole & Dintorni