Si intitola Non c’è più tempo il primo album di inediti di Michelangelo Vood (Carosello Records). Anticipato dai brani Scemo, Due morsi e 2000 anni, l’intero progetto appare come un diario in cui il cantautore analizza e dà voce a un malessere generazionale dagli ingredienti disparati: amore, solitudine e soprattutto l’incertezza della rincorsa al tempo, come esplicitato dal titolo e dalla title track.
«È il primo disco e spero sia un inizio, ma è anche la chiusura di un cerchio e di un percorso che mi ha visto buttarmi nella musica nel 2019. – ci dice Michelangelo Vood – Abbiamo organizzato una festa in casa per festeggiare l’uscita e mi ha emozionato molto, perché è la stessa cosa che facemmo nel gennaio 2019 quando uscì Ruggine, la mia prima canzone. È stato tutto giusto e tutto ha acquisito un senso più profondo. Non sono cambiato molto da allora. È cambiata la carta d’identità ed è aumentata l’ansia sociale, ma l’onestà che cerco di portare in ciò che faccio è la stessa».
Un processo naturale, dunque, frutto in primo luogo della quotidianità. «I percorsi di vita – dice Michelangelo – sono in divenire, ma scrivendo questi brani mi sono reso conto che avevano un filo conduttore. Il tema amoroso fa da sfondo alle varie vicende, ma parlando con amici e coetanei ho capito che le mie sensazioni erano comunissime. Ho capito che c’è un evidente problema generazionale, che è esattamente ciò di cui, in modo inconsapevole, parlo nelle canzoni. Questo mi ha dato la forza di fare questo disco».
Curioso che la traccia Non c’è più tempo sia la traccia più vecchia. «Risale al 2017 – ci racconta il cantautore – e mi son chiesto a lungo se fosse il caso di mettere nel disco un brano così vecchio e con tratti di scrittura diversi rispetto ai miei di oggi. Alla fine, riascoltandola, mi son detto che nella sua semplicità la canzone parla esattamente di me oggi. Sono rimasto onesto nei confronti della mia visione del mondo di allora. Quella canzone nata in camera mia aveva già i germi e i semi delle riflessioni del disco. L’ho scelta come titolo anche come tributo finale a quella verità».
Michelangelo Vood e il confronto generazionale
Da qualche mese – «come Batman» – Michelangelo Vood ha quasi una doppia vita: di giorno prof e di sera cantautore. Il confronto con gli studenti, in realtà, è stato in parte linfa di questo lavoro. Tanto che i suoi alunni hanno ascoltato l’album in una sessione in studio prima di chiunque altro. «All’inizio questa chiamata a scuola l’ho vissuta male, perché mi conosco e so che mi piace fare le cose per bene. – ci racconta – Sapevo che stavo facendo il disco e temevo mi portasse via molta energia. Poi mi ci son tuffato e mi si è aperto un mondo».
Sono stati gli studenti ad «aver sgamato» la vena artistica di Michelangelo: «A un certo punto li ho tirati in mezzo in maniera extra-scolastica, da pari. – ci dice – Son venuti con me in studio e non gli sembrava vero, perché il posto era figo e poi perché per loro era assurdo che fossi io a cantare. La loro spontaneità per me è tutto, sebbene ci siano tante emergenze. Questi ragazzi si sono barricati a livello generazionale dietro cose profondissime. Mi sento responsabile al di là del pensiero politico».
In fondo, lo scambio ha portato alla consapevolezza che il malessere potrebbe in realtà essere trans-generazionale. «Mi hanno detto che tante cose sentite nelle mie canzoni le capiscono. – dice Michelangelo – Loro non hanno il problema di aver abbandonato la mamma in provincia, ma quello di trovare l’amore e il proprio posto nel mondo. Navigano a vista come noi. Siamo nella stessa condizione».
Le sonorità di Non c’è più tempo
Gli arrangiamenti dell’album sono stati curati da Giordano Colombo. «Mi chiese se poteva coinvolgere due suoi amici e ho scoperto che parlava di Nicolò Carnesi e Donato Di Trapani. – dice il cantautore – Ci siamo trovati in studio. Spesso mi limitavo a portare demo piano e voce o chitarra e voce delle mie lagne. Grazie alle idee condivise in una settimana, alcuni pezzi hanno svoltato. Uno su tutti Sangue e sudore che, se lo sento ora, mi fa uno strano effetto perché è cambiato completamente il ritmo».
«Quando si fa un disco si dice che devi raccogliere il più possibile e vedere poi cosa porti. – continua – Io ho fatto così. Mi sono trovato bene con alcuni co-autori e ci siamo visti in modo spontaneo. La cosa bella l’ho capita a posteriori: le canzoni che ho messo nel disco son quelle nate insieme ai ragazzi con cui ho avuto più sintonia e un rapporto più vero, privo di quella facciata tipicamente milanese. Più si creava un dialogo privo di sovrastrutture e più quello che usciva era più bello. So di essere uno dei tanti oggi e che c’è troppa musica in giro. Quindi il fatto stesso di aver avuto la possibilità di fare un disco a 32 anni per me non è banale. Ed è anche il motivo per cui me lo vivo come se fosse l’ultimo disco. Serve a me per mettercela tutti e donarmi».
In attesa dei live
Di sicuro, dopo Non c’è più tempo, Michelangelo Vood non si sente una persona risolta. «Sono come Capitan Uncino – scherza – e l’ansia del tempo che scorre ce l’avrò a vita. Sono felice però di fare dei concerti. Non è facile oggi, perché sono sempre meno i posti dove un emergente può trovare pubblico e spazio. Ma il live è per me una scuola che mi serve a capire se le cose che dico arrivano. Le persone capiscono quando hanno davanti qualcosa di vero e invece tendiamo a sottovalutarle. Io credo invece che una luce, in questo mare nero, esista. Le rivoluzioni partono da qua».