I The Script tornano con l’album ‘Satellites’: un viaggio emotivo tra i contrasti della società. La nostra intervista a Danny O’Donoghue.

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Si intitola Satellites il nuovo album dei The Script uscito il 16 agosto per BMG. Un album «ottimista», o almeno così ci dice Danny O’Donoghue, anticipato non a caso dalla traccia Both Ways caratterizzata da uno splendido groove. Un ritorno non facile quello della band irlandese, che segue la scomparsa prematura di Mark Sheehan. Eppure Satellites è un album ricco di luce. Ne parliamo proprio con Danny O’Donoghue.

The Script, Danny O’Donoghue racconta Inside Out

Satellites è un album ricco di emozioni. Credo che la traccia più onesta e intima sia Inside Out, che non nasconde le brutture dei tempi in cui viviamo. Come nasce?
«Se intitoli una canzone Inside Out e poi, durante il processo di creazione, non ti riveli totalmente non le rendi giustizia. Ed è il motivo per cui la canzone è nata. L’abbiamo scritta con Steve Mac ed era la prima volta che mi trovavo in studio con lui. Mi ha chiesto cosa stesse succedendo nella mia vita e, in effetti, stava succedendo di tutto. Al posto di parlare solo di un aspetto, abbiamo pensato Perché non fare una canzone che parla di tutto, come un flusso di coscienza?. Ho tantissime questioni di risolvere, ma se lo dico ad alta voce le persone pensano che sono pazzo. Nello stesso tempo, però, esplicitare i problemi vuol dire renderli reali».

È stato complicato mettere nero su bianco i propri pensieri?
«Avevo registrato una nota vocale in cui dicevo che stavo provando a far uscire queste cose e che mi sentivo sottosopra. Inside Out, appunto. Steve me l’ha subito fatto notare. Io gli ho detto che con inside out mi riferivo all’idea di buttare fuori ciò che avevo dentro. Lui ha replicato No, no inside out!. E lì ho afferrato il senso! Fa ridere, i The Script amano questi colpi di scena nei testi eppure non me ne ero reso conto finché non l’ho detto ad alta voce. Un mio amico poi, durante una conversazione, mi ha detto L’unica cosa che non cambia mai è il fatto che le cose cambiano sempre. L’ha detto senza farci neanche caso, mentre io pensavo Wow, che frase geniale da dire. L’ho appuntata ed è finita nel brano».

Viviamo in tempi difficili?
«Le persone in questa epoca cercano di capire cosa sta succedendo e provano a trovare se stessi in mezzo alla follia. Perché viviamo tempi folli, sono tutti al telefono e pensano di non avere un loro posto in questa società. Si diffondono così dislessia, OCD, ADHD, cose che ti fanno provare un senso di non appartenenza. Invece siamo tutti parte di qualcosa. Abbiamo solo dei problemi da risolvere. È la canzone giusta per dire Chi altro si sente così?».

Genitori e figli in Home Is Where The Hurt Is

C’è un altro brano molto duro ed è Home Is Where The Hurt Is.
«Tutti nel mondo, non importa che siano poveri o ricchi, hanno problemi a casa. A volte le persone ricche hanno anche più problemi di chi non ha soldi. Non parlo di problemi monetari ovviamente, ma della difficoltà di connettersi ad esempio con i propri figli o di interessarsi a loro. È una canzone che, di fatto, parla di personalità e non di ciò che possiedi. Parla dell’interazione tra due genitori. Da piccolo, pensavo che i miei genitori fossero anziani mentre non solo erano ancora giovani, ma sono spesso i figli a causare in loro ansia. I miei genitori non erano perfetti, ma è anche vero che forse non erano pronti a una famiglia di quelle dimensioni così presto e quando erano ancora giovani. Crescere in quella in famiglia mi ha fatto sentire il bisogno di più attenzioni, ma non me ne rendevo conto».

Come mai?
«Ho cinque fratelli e i miei genitori non sono soltanto i miei genitori. Sono anche persone che hanno una loro vita. È difficile capire e accettare che ogni membro della mia famiglia sia un mondo a sé stante. Ognuno di loro vive alti e bassi e varie idiosincrasie. L’ho scritto in una canzone per dire, di base, che crescere è molto complicato».

E anche essere genitori in fondo lo è.
«È complicato essere genitori ed è complicato essere figli. È tutto difficile. Ma viviamo in un mondo in cui nessuno è perfetto, quindi ciò che ci distrugge è anche ciò che ci rende ciò che siamo. Bisogna esserne fieri. Io, almeno, non cambierei nulla. Ciò che ho vissuto da bambino mi cambia, no? Ma possiamo dire che da piccoli sia una sorta di allenamento per non farci distruggere da grandi. Forse quelle cose ancora hanno un effetto su di me, ma nulla di ciò che mi accade oggi mi distrugge proprio perché le ho vissute. Dipende dal tuo punto di vista: puoi dire che va tutto storto e intristirti o che stai bene e che ora hai un superpotere. Puoi affrontare ogni cosa. Se puoi far fronte a quella cosa, puoi far fronte a ogni cosa».

Il viaggio emotivo di Satellites

L’album è comunque un viaggio. Ci sono brani come Both Ways e brani come At You Feet che hanno mood molto diversi.
«Sono due canzoni molto diverse tra loro. Volevamo immaginare tante cose diverse. C’erano canzoni molto simili a Both Ways in lizza per l’album, così come altri brani più vicini a At Your Feet. Ci siamo chiesti quale fosse la versione migliore, quale fosse la canzone migliore. Ed è venuto fuori questo album. Ciò di cui però vado realmente fiero è il fatto che, per quanto Both Ways e At Your Feet siano diverse, sono suonate dallo stesso numero di strumenti. Chitarra elettrica, piano, basso, batteria: dimostra quanto puoi diversificarti in un unico album. Siamo una band e possiamo fare entrambe le cose. E poi tutto il mondo sa ciò che abbiamo passato. Non volevo tornare con canzoni tristi che facessero da sfondo alle nostre vicende».

Sarebbe stato, forse, forzato?
«Volevo che ci fossimo noi, che facessimo musica cercando di trovare la nostra strada. Both Ways è il primo singolo dell’album e credo sia una buona canzone di reazione. Perché è diversa. Se fossimo tornati con un brano in pieno stile The Script ci avrebbero chiesto perché, visto che Mark non è qui. Credo quindi fosse importante scrivere Both Ways che ha stabilito il tono del progetto. Sapevamo di poter scrivere brani con quel mood, di poterci divertire. E poi ci sono ovviamente brani emotivi come At Your Feet, che – è divertente – credevo fosse diversa ma tutti ci dicono che è una canzone tipica dei The Script. Un ritorno ai nostri tempi migliori. Sono grato comunque per entrambi i brani».

Ci sono poi canzoni simili a Both Ways come mood, e altre più simili a At Your Feet.
«Both Ways, Unsaid, Run Run Run… ogni canzone appartiene a un gruppo di brani con lo stesso mood. Per noi era importante non avere una sola canzone, ma avere più brani che si somigliassero. Di contro ci sono At Your Feet, Home Is Where The Hurt Is e forse anche Satellites e Promises che sono più tristi e più nel nostro stile. Ci siamo divertiti».

Il titolo Satellites

Il vostro DNA si sente ovunque, anche se l’album è un po’ diverso nello stile. A proposito di Satellites, come mai questo titolo?
«C’erano vari nomi in ballo. Stavamo caldeggiando anche Home Is Where The Hurt Is come titolo ma, date le circostanze, avremmo promosso un album all’apparenza molto triste. Invece non lo è, credo sia un album ottimista. Ci sono molte emozioni diverse dentro, quindi ho immaginato un satellite che, dall’alto, guarda in basso e vede ogni tipo di persona e sensazione. Vede ciò che succede, le guerre, la pace. Volevo che questo album fosse un modo per sedersi e staccarsi da ciò che sta accadendo. Personalmente e professionalmente stiamo affrontando alcune tematiche, ma se ti allontani diventa tutto un’immagine unica. E inoltre i satelliti sono forme di comunicazione: sentivo questa simmetria. Amo le stelle, amo lo spazio. E alla fine siamo tutti solo dei granelli di polvere che fluttuano nello spazio. Credo sia un titolo molto figo».

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Ascoltando l’album dall’inizio alla fine, ho avuto l’impressione che il messaggio sia che c’è sempre una luce alla fine del tunnel. Certo, bisogna essere consapevoli delle brutture del mondo.
«È così che mi sento. Ed è così che mi sentivo mentre scrivevo l’album. Viviamo tempi difficili, ma se ascolti uno qualsiasi degli album dei The Script, ti rendi conto che abbiamo sempre affrontato le difficoltà tentando di tirarne fuori il lato migliore. Every day, every hour, turn the pain into power. Superheroes compie 10 anni quest’anno, non è incredibile?».

Direi un brano immortale che conferma la mission dei The Script.
«Saremmo pazzi a non continuare con quella mentalità. Non importa cosa succede, devi sempre puntare in alto e provarci. Tra qualche anno potrei guardarmi indietro e pensare che l’album è bello solo perché stavo affrontando il dolore e non sapevo cosa stessi facendo. Ma la vita è così, giusto? Si torna subito a lavorare, non puoi prenderti un anno di pausa per elaborare un lutto. Devi piangere chi non c’è più e poi tornare in ufficio. Funziona così per tutti. Non è necessariamente giusto o facile, ma è così. Credo poi che a volte provare a distrarsi dal dolore aiuta a superarlo, perché se ci pensi tutto il giorno non se ne andrà mai. Io non voglio che scompaia, ma vorrei usarlo per crescere».

Tornerete in Italia in concerto (l’11 dicembre al Fabrique di Milano). So che è presto, ma come vi sentite al riguardo?
«Non vedo l’ora! Onestamente adoriamo l’Italia! Ci sono due delle mie città preferite, tra cui Firenze. Sto leggendo proprio ora un libro sui Medici. Quella famiglia è incredibile, è buona e cattiva nello stesso tempo. Ma l’arte, la musica, il Rinascimento che hanno finanziato… Certo, non erano proprio onesti. Comunque Roma, Firenze, Venezia… non vedo l’ora di tornare. Gli italiani sono come noi, molto passionali. Amiamo cantare e emozionarci insieme a voi. A volte anche piangere, tanto non ci importa se poi ci giudicano».