Archive : al Viteculture Festival un live immaginifico del collettivo per menti libere
Gli Archive tornano a Roma, al Viteculture Festival ed ancora una volta sorprendono per le scelte, non convenzionali, che caratterizzano questa particolare formazione britannica. In effetti, più che di una band stiamo parlando di un vero e proprio collettivo dove tutto è in continuo movimento ed elaborazione (compresi i musicisti che escono ed entrano nelle varie formazioni chiamate a registrare nuovi album o ad esibirsi live). E così a Roma gli Archive si presentano con i padri fondatori Darius Keeler e Danny Griffiths (vere anime elettroniche del gruppo), ma senza rappresentanza femminile (nessuna delle due cantanti comprese nell’organico era sul palco).
Fortunatamente la band è oramai una certezza assoluta nel panorama indie internazionale ed ha raggiunto una maturità tale che ogni sua esibizione, sotto qualunque forma, costituisce un evento assolutamente imperdibile. In questo caso, poi, l’attenzione è decisamente centrata sui brani dell’ultimo, interessante lavoro, intitolato “The False Foundation”, che sposta maggiormente verso l’elettronica le consuete coordinate sonore prog, post rock, trip-hop, space-lisergiche di Keeler e soci. Decisamente appropriata, poi, la scelta delle immagini (proiettate su uno schermo alle spalle del gruppo) che, filtrate ed elaborate, accompagnano l’incedere dei brani, a partire dal recente “Driving The Nails” (con il quale gli Archive aprono il concerto) e dalla successiva title track dell’ultimo lavoro.
Uno dei momenti clou arriva, naturalmente, con l’esecuzione della celeberrima “Bullets”, un lancinante grido di protesta contro il controllo della masse e gli effetti negativi del capitalismo che, naturalmente, scatena l’entusiasmo dei presenti. Pausa di riflessione atmosferica immediata con le reminescenze trip hop di “Bright Lights” che vede al centro dell’attenzione la straniante e, quasi androgina, vocalità di Pollard Berrier, ben coadiuvata, in altri brani, da quella (altrettanto interessante) del chitarrista e percussionista Dave Pen. Ma, ben presto, si torna ai suoni marcatamente elettronici che si fondono con inconsuete e rumorose strategie chitarristiche, accompagnate dall’incedere impetuoso e continuo di percussioni e batteria.
E così scorrono in rassegna brani d’impatto tratti da lavori meno recenti (come “Controlling Crowds” o “Axiom”) nell’ambito di una scaletta che, naturalmente, non contempla alcuni brani “classici” e di grande presa del repertorio come “End of Our Days”, ricamata in originale dalla splendida voce della fascinosa Holly Martin. Purtroppo l’incanto si spezza dopo soltanto un’ora e mezza (davvero intensa, comunque, visto che non c’è stata pausa fra un brano e l’altro) con l’incalzante e travolgente “Numb” (tratta da “You All Look The Same to Me”, album del 2002) che chiude degnamente un’esibizione convincente, soprattutto per le molteplici soluzioni sonore ascoltate e proposte.