Andrea Dianetti porta a teatro ‘Non ci pensare’, uno spettacolo che racconta le ansie in cui viviamo immersi. L’antidoto? Riderci sopra senza dimenticare l’empatia. L’intervista.
A-N-S-I-A. Basta leggere, pronunciare o cercare (sui motori di ricerca i risultati sono decine di migliaia) questa parola per capire quanti siamo legati a essa. Un sottile filo rosso che corre, si snoda, si riannoda, si perde e, ahinoi, torna. Torna sempre, o quasi. Non a caso i dati dell’OMS parlano di 264 milioni di adulti che si trovano a fronteggiarla ogni giorno. Eccola lì che bussa anzi no, fa direttamente capolino senza chiedere permesso. Se è vero che ‘mal comune, mezzo gaudio’ mica tanto, certo è che quando distribuivano l’ansia siamo stati un po’ tutti in fila.
Immersi, dunque, nel brodo esistenziale ansiogeno, c’è un solo modo per affrontarlo senza annegarci dentro. Al netto, ovviamente, della patologia con le sue criticità tutt’altro che leggere (ma non è, questo, il terreno in cui ci muoviamo). Ed è riderci sopra, magari insieme, a teatro. È questo l’antidoto che porta in scena Andrea Dianetti con lo spettacolo Non ci pensare, al via dalla Sala Umberto di Roma il 18 novembre.
Stai per debuttare con un nuovo spettacolo a teatro. Ma quante volte al giorno ti ripeti Non ci pensare?
Me lo ripeto un sacco di volte al giorno e fondamentalmente è il motivo per cui l’ho chiamato così. Ci sono tanti motivi per cui durante la giornata ci si fa venire l’ansia e, quindi, dire ogni tanto Non ci pensare diventa un mantra che mi ripeto.
Tra l’altro ormai l’ansia è ormai i minimo comune per almeno il 98% delle persone. Quanto riderne, per quanto possibile, aiuta?
Io ne ho fatto uno spettacolo perché per me era anche un modo un po’ per esorcizzarlo, un po’ quando si dice che il re è nudo e lo si depotenzia, diventa più debole. Spero che, almeno un pochettino, lo spettacolo possa fare questo effetto sulle persone vedendo che le proprie ansie sono un po’ le ansie di tutti quanti noi… Mal comune mezzo gaudio, può darsi almeno… Il mio augurio è che le persone tornino a casa con un sorriso in più e la l’anima più leggera ma, allo stesso tempo, pensando non essere le sole ad avere certi timori. Dall’andare a scuola al prendere l’aereo. Sentirsi meno soli fa diventare tutto più sopportabile.
E scriverne, ovvero mettere nero su bianco ansie e paure, quanto è stato terapeutico ma anche divertente?
Mentre lo scrivevo dicevo ‘ma io sto davvero ridotto così? Ma veramente? Tocca tornare dallo psicologo’… Seriamente, parlare di questo è stato un modo per alleggerire e anche per fare un po’ un riassunto, un recap di tutto ciò che nella mia vita forse andava un po’ più calibrato, vissuto con un’intensità diversa. Mi sono reso conto di quanto questi argomenti siano stancanti perché, anche dopo le prove, mi sento stanco come se avessi fatto veramente un triathlon o la maratona di New York! Mi sento spappolato (sorride, ndr) perché nel parlarne, oltre alla tensione sul palcoscenico, il corpo viene coinvolto proprio da quello che stai raccontando.
Sei co-autore insieme a Graziano Cutrona e Marco Los, come è stato confrontarsi con loro sul tema ansia?
Si è creato quasi un gioco. Una cosa che subito dissi all’inizio è stata ‘ragazzi, io scrivo di queste cose, cosi mi dite che cosa ne pensate e se vi va ci aggiungete qual’. Ci tenevo, cioè, che la struttura partisse da me in modo che sembrasse tutto più originale possibile anche perché è una sorta di monologo in cui racconto qualcosa. Non volevo correre il rischio che poi suonasse strano in bocca a me. Ho chiesto, quindi, loro di farmi da allenatori, da coach, ai quali far vedere quanto sapessi correre per poi avere delle dritte per metterci un po’ meno per saltare l’ostacolo o prendere meglio la mira.
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Ma la direzione doveva essere la mia: qualcosa, quindi, è stato aggiustato o aggiunto e abbiamo tolto un sacco di cose, monologhi interi. Poi, in realtà, se dovessi dire quale è la cosa che mi riesce più facile direi, paradossalmente, improvvisare. Dire qualcosa che è scritta, anche se magari l’ho scritta io, dopo un po’ pesa a me per primo quindi, ogni volta che la riproviamo, improvviso qualcosa. Per questo orni sera sarà uno spettacolo diverso.
Tra le categorie di ansia ci sono anche quelle dell’artista. A tale proposito ti chiedo qual è l’ultima cosa che pensi prima che si apra il sipario?
In quel momento è pura ansia! Un ansioso che fa questo mestiere e non ha ansia all’inizio di uno spettacolo ha sbagliato tutto. E c’è una frase che mi ripeto spesso, ma siamo in tanti dell’ambiente a farlo, ed è ‘chi me l’ha fatto fare! Non potevo fare un mestiere normale?’. In quei due secondi prima di entrare in scena lo pensi sempre poi, però, dopo arriva l’adrenalina del pubblico con tutta la sua energia e ti rendi conto che stanno lì per te. Un conto è quando sei nel cast di una commedia e qualcuno guarda il film anche per vedere te, un conto è il pubblico che viene a teatro appositamente per te. Si è impegnato a comprare un biglietto, a mettersi in macchina, cercare parcheggio… per questo ci vuole rispetto nei confronti del pubblico ti dedica del tempo non da poco.
Senti più senso di responsabilità o ne sei rassicurato?
Direi che è un pubblico che ti vuole e spera che tu faccia bene quindi, a meno che io non mi metta a fare a pernacchie, si spera che reagisca positivamente quindi un po’ è più rassicurante teoricamente. L’ho visto anche in alcuni spettacoli di altri miei colleghi: quando il pubblico è appositamente lì per te sei come il festeggiato al compleanno. Magari, poi, in separata sede ne dicono di ogni però in quel momento stanno lì per te solitamente perché sanno cosa fai e dovrebbero stimarti… Difficile che troveranno qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che un po’ si aspettano.
È forse un errore, in questo senso, quando alcuni colleghi che per tutta la vita hanno fatto divertire a un certo punto decidono di fare uno spettacolo completamente drammatico, senza una battuta. Allora il pubblico lì non è abituato a quella cosa, al massimo va portato piano piano in quella direzione. Ma se me la schiaffi subito a cannone la prima volta io rimango confuso… Immagina di andare a vedere un concerto dei Queen e quella sera decidono di suonare solo col triangolo. Sarebbe un po’ strano, ecco…
Come si gestisce lo spazio di un palco da solo?
Sicuramente la gestione dello spazio da solo ha i suoi pro i suoi contro. Essere con permette di dividerti un po’ le fatiche e le ansie; di conseguenza anche se qualcosa poi non va bene una sera non è solo tua. Quando, invece, sei solo te al massimo potrebbe aver sbagliato il fonico o il tecnico delle luci ma all’ 80% la colpa è la tua. Ma la parte positiva, come dicevo prima, è che stanno tutti quanti lì per te e tu puoi gestire tutto. Poi, se sei un po’ maniaco del controllo tipo me, vorresti avere tutto sotto controllo, luci e audio compresi. Se potessi, non per togliere il lavoro a nessuno, ma vorrei davvero controllare tutto! Sai che soddisfazione!
Hai un percorso alle spalle tra tv, cinema, web e teatro: oggi è più facile o più difficile far ridere le persone rispetto a qualche anno fa?
A essere sincero ho visto certi spettacoli molto leggeri con degli up and down continui in cui la gente comunque continuava a ridere. Cioè, le persone ridono molto facilmente e, da una parte, questo mi ha tranquillizzato perché ero rimasto a un pubblico un po’ più con la puzza sotto il naso. Invece, si vede che il teatro è diventato più popolare, è diventato di nuovo del popolo.
Fino a qualche tempo fa trovavi gente con uno standard di spettacoli molto alto, che passava da Molière e Pirandello alla commedia, a cui di fatto non era abituato. Invece, adesso, finalmente c’è anche la signora che fino a che ieri guardava soltanto la televisione o il ragazzo che lavora all’acciaieria e ha voglia di andare a teatro. È bello che si sia ritornati un po’ al popolo e questo, forse, ha anche reso più facile la risata perché meno sei abituato a una cosa e più, quando la senti, ti colpisce.
Rispetto al sistema dell’intrattenimento, dalla tv allo smartphone, il teatro resta una bolla anche in termini di tempo e attenzione.
Sì, c’è una soglia di attenzione maggiore. Nel complesso l’attenzione è scesa in maniera vertiginosa, quasi a zero, e i social in maniera inaspettata – ma preoccupante – stanno portando molte persone a teatro. Tante persone che lavorano coi social ora stanno a teatro e, non voglio vecchio brontolone, ma questo crea una visione un po’ distorta. Sembra che un qualunque ragazzetto che fino si riprendeva su Youtube a mangiare panini, ora possa andare al Brancaccio e fare sold out. Questa non è la vera realtà del teatro, perché non è per niente facile riempire i teatri. Il rischio è che i proprietari dei teatri facciano l’errore che, tempo addietro, fecero i proprietari dei cinema proiettando solo certi film americani che riempivano e non davano più spazio al cinema di qualità. È un cane che si morde: c’è la necessità di incassare per sopravvivere ma così si abbassa la qualità.
Un conto sono colleghi che sono attori e performer che usano anche i social, ma davvero rischiamo di ritrovarci ragazzetti che stanno sul palco a dire cose senza senso. Fanno gli sketch come se stessero davanti a TikTok e non va bene. Perché poi, magari, arrivano attori consumati che fanno cose importanti ma siccome non fanno il sold out non viene loro concesso il teatri. È una questione un po’ preoccupante che rischia di far decadere la qualità, mentre prima si eccedeva al contrario. O eri quel tipo d’attore impegnato o non ti potevi avvicinare al teatro, era l’errore al contrario. Stiamo rischiando l’esatto opposto, dopo i B-movie che finirono al cinema ora abbiamo il B-teatro.
È anche questione di linguaggio, ovvero non puoi approcciarti al teatro con lo stesso modo con il quale affronti i social. Da questo punto di vista se esempio di crossmedialità che sa adattarsi al contesto.
Il problema è proprio il fatto che alcuni portano le stesse cose che fanno sul web a teatro, ma non è la stessa cosa. Ci deve essere una chiave di lettura diversa perché ciò che funziona a teatro non è detto che funzioni al cinema e viceversa. Anche sui set succede che provano a far fare film a persone fortissime sul web ma poi vanno malissimo. Un conto è accendere il telefono e trovarsi davanti dei contenuti da fruire gratis, un conto è – come dicevamo prima – cercare il biglietto, mettersi i soldi da parte, prendere la macchina e arrivare al cinema. C’è una spesa dietro e quella spesa deve essere rispettata. Quindi, va bene dare la possibilità a tutti però sempre con cognizione.
Con Non ci pensare parti da Roma poi fai tappa a Milano, Genova, Firenze, Torino e Bologna. Niente Sud?
Arriveranno altre date, è soltanto una questione produttiva e di disponibilità dei calendari; non ci sono discriminazioni! Al Sud, cascasse il mondo, ci andremo a costo di portarmici da solo (ride, ndr). Semplicemente, venendo da altri lavori, abbiamo iniziato un po’ tardi a preparare lo spettacolo e alcuni erano avevano già la stagione chiusa.
Nel frattempo sei al lavoro anche su altri progetti?
Per ora, sono molto concentrato su questo spettacolo proprio perché, per tanto tempo, gli ho levato tempo. Lo dovevo preparare e c’è stata Miss Italia poi Mediaset… quindi l’ho un po’ trascurato. Ho fatto in modo di non avere niente che possa ostacolarlo ulteriormente ma ci sono comunque delle cose che potrebbero anche diventare abbastanza grosse in futuro.
I tempi sono maturi per Sanremo, che quest’anno vede tornare Carlo Conti. Se un giorno ti proponessero la conduzione?
È come se mi chiedessi se ti piacerebbe guidare una Ferrari! Cioè, un giorno con la giusta esperienza, la giusta gavetta – per fare Sanremo ce ne vuole moltissima – e coi giusti tempi, perché no.
Se dovessi scegliere tre canzoni a fare da colonna sonora di Non ci pensare, quali sarebbero?
Vediamo… Senti cosa ti tiro fuori: Vent’anni di Massimo Ranieri, poi nel mezzo ci metterei un po’ una canzone che mi piace tanto che ci potrebbe stare bene High dei Lighthouse Family e poi andrei a chiudere con un Sogna ragazzo sogna di Vecchioni.. Potrei averlo casualmente messo anche dentro lo spettacolo…
Noto una certa vena malinconica.
Ma io sono malinconico, lo dice benissimo Carlo Verdone che chi fa ridere solitamente è perché sa che vuol dire essere tristi. Pensa a Robin Williams, Jim Carry e lo stesso Carlo Verdone quando racconta di tutte le sue ansie. È difficilissimo che un comico sia una persona sempre allegra anche perché se tu stai sempre bene e sei sempre allegro, non senti la necessità di far ridere gli altri. Ma se sai che cosa vuol dire non essere di buon umore, avere tristezze, malinconie o dolori, allora, quando vedi qualcuno che non sta bene, hai l’esigenza di non farlo stare così. Entri in empatia col suo dolore solo se sai che vuol dire.
Perché, spesso, i politici non ci capiscono? Perché se non conosci la sofferenza del popolo come fai a ad aiutarlo? Dovresti stare a terra, come diceva Pertini, in mezzo alla gente per poter capire come funziona. E poi è fondamentale l’empatia, un artista senza empatia che mestierante è? L’empatico riesce a mettersi nei tuoi panni e cerca di avvicinarsi alla sofferenza anche magari è nato in una condizione di agiatezza. L’empatia o ce l’hai o è difficile averla. Per questo dico che la grande politica, così come le grandi star, non hanno contatto con la realtà. L’empatia ci salverebbe, se fossimo tutti empatici sarebbe un mondo meraviglioso.
Di seguito le date del tour teatrale a cui si aggiungeranno presto altri appuntamenti:
- 18 novembre – Roma, Sala Umberto
- 04 dicembre – Milano, Teatro Martinitt
- 06 dicembre – Genova, Teatro Stradanuova
- 11 dicembre – Firenze, Teatro Puccini
- 13 gennaio – Roma, Sala Umberto
- 29 gennaio – Torino, Teatro Gioiello
- 04 febbraio – Bologna, Teatro Dehon
I biglietti sono disponibili su Ticketone, Vivaticket e nelle biglietterie dei teatri.
Ascolta la Spoty Funweek dedicata ad Andrea Dianetti
Facendoci ispirare dalle imitazioni a Tale e Quale Show di cui Dianetti è stato concorrente nel 2022 e ai brani che ci ha indicato nell’intervista, ecco la playlist che abbiamo dedicato su Spotify.
Immagini da Ufficio Stampa / Kikapress