Il 21 giugno Michele Bravi inaugura la stagione musicale al Castello Sforzesco di Milano e per farlo ha scelto uno spettacolo tra prosa e musica nel segno del gioco. La nostra intervista.
È Michele Bravi ad avere quest’anno l’onore (e l’onere) di aprire il programma musicale di ‘Estate al Castello’ nel cuore di Milano. La rassegna di spettacolo live, promossa e coordinata dal Comune di Milano nell’ambito di “Milano è Viva”, vede infatti in cartellone l’artista nella serata di mercoledì 21 giugno. Il Cortile della Armi, dunque, si prepara ad accogliere Mondo sottile live, un appuntamento assolutamente inedito che intende riportare sul palco un nuovo approccio all’arte.
Il tema centrale è il gioco che Michele Bravi ha voluto riscoprire come pratica creativa e personale e che diventa il nucleo di una performance tra musica e prosa. Un momento che vuole scardinare le regole per restaurate quello spirito di bambino che, incontrando la passione, riesce a costruire qualcosa di unico. Speciale. Certamente personale. Ce ne ha parlato l’artista in questa lunga chiacchierata.
Raccontami un po’ di questo tuo momento artistico, che ti porterà ad aprire la stagione 2023 di ‘Estate al Castello’.
Allora, nasce tutto dal fatto che io nell’ultimo periodo ho avuto quello che potrei chiamare blocco artistico, nel senso che non sentivo più l’esigenza di scrivere. Ma a un certo punto, mi sono reso conto che sono passati quasi due anni dall’ultima volta che ho pubblico materiale musicale nuovo. Sul fronte live, invece, questa cosa l’ho sentita un po’ di meno perché comunque fino a settembre dell’anno scorso ero in tour. Poi c’è stata la parentesi televisiva con Amici quindi non ho sentito troppo quell’assenza. Ma mi sono proprio accorto che forse mi stavo un po’ dimenticando che cosa vuol dire vivere tutti i giorni con la fame di scrivere, come mi succedeva prima.
Quando te ne sei reso conto?
È stata una cosa assurda e divertente. Adesso vivo a metà tra Roma e Milano e quando sono a Roma abito da Chiara Gamberale. A un certo punto, raccontandole questa cosa, lei mi regala il libro di Julia Cameron La via dell’artista, una sorta di corso di creatività di dodici settimane tra il gioco e la spiritualità. Lo sto facendo da un po’ di tempo e mi rendo conto di come effettivamente, e involontariamente, sono tornato a scrivere. Questi esercizi sono semplicemente un modo per riabituare la mente creativa a giocare e questo processo ha sbloccato una serie di cose che poi hanno aiutato anche nell’ideazione del prossimo spettacolo.
Che tipo di racconto hai costruito per questo show al Castello Sforzesco?
Beh, intanto quando è arrivata la proposta di aprire la stagione musicale al Castello Sforzesco è stato un onore e sicuramente è un momento importante per la mia carriera. Allo stesso tempo, avevo un po’ di dubbi proprio perché non avevo né musica nuova da presentare in questo momento né un nemmeno un tour da portare in giro. Quindi, significava costruire qualcosa di nuovo ma mi è venuto naturale andare sulla tematica che in questo momento, come ti dicevo, sento più calda. Ovvero quella del gioco, ovvero la visione che ne hanno i bambini; il che ha significato anche destrutturare la forma del concerto e giocare completamente con quello che stai facendo.
Sarà uno spettacolo che è anche un concerto, un momento creativo che vive tra la prosa e la musica in completa libertà dalle regole. Lo spirito è proprio quello dei bambini si dice ‘adesso facciamo la guerra’. Ecco, è come se avessi detto a un bambino ‘facciamo uno spettacolo’ e ne è nato questo testo di prosa scritto qualche mese fa che porterò al Castello Sforzesco. Lo condividerò con una serie di ospiti che mi piace dire non sono veri e propri ospiti; ognuno interpreterà un ruolo giocando sul concetto dell’auto finzione.
Quindi, chi sarà con te sul palco?
Beh, ci sarà per esempio la mia vicina di casa che non è la mia vicina di casa. Ci sarà la mia maestra delle elementari che forse, in parte, era veramente la mia maestra delle elementari. Ci sarà una signora matura, Wendy, e un personaggio stravagante che si chiama Angelo Gabriele, tutti con questa volontà di giocare. Il gioco mi sta riaccendendo proprio la fantasia e l’entusiasmo di scrivere. In questo senso, per me, questo è proprio un bel periodo.
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Ritornare al gioco come esercizio nella vita e nella musica
Da quello che mi dici è come se avessi dovuto razionalizzazione quel momento di mancanza di creatività per andare oltre.
Sì, forse tecnicamente non è corretto ma è tipo la Psicomagia di Jodorowsky. Mi sono reso conto, l’ho capito soltanto dopo mesi di analisi, che io negli ultimi anni non facevo altro che raccontare la gratitudine. Ero concentrato sul restituire quanto fossi grato che la mia passione fosse diventata una professione. Ma verbalizzare questa cosa trasforma proprio il concetto di passione e lo fa diventare un lavoro, ed io ero diventato un pochino troppo razionale nel lavoro. Invece, adesso ho capito che devo dire qualcosa che rispecchia molto di più il mio pensiero e il gioco mi permette di farlo. Data per scontata la gratitudine di quello che ho avuto, ora dico la mia professione è la mia passione. Basta invertire semanticamente i termini per riscoprire che la possibilità al gioco e alla fantasia esistono, ci sono. È vero che vivo in un mercato ma è vero che posso anche far finta di giocare con quel mercato.
Questo che impatto sta avendo sul tuo approccio alle cose e non solo al fare musica?
È stato un passaggio mentale involontario dopo che mi sono auto-censurato. Ti dico un aneddoto: a un certo punto, parlando con la bambina di Chiara Gamberale, lei mi dice ‘sei proprio buffo perché sei serio’. Mi ha fatto pensare che forse non serve essere così seri e si può essere seri anche essendo buffi. Sto cercando di tornare a giocare anche col mio senso di pesantezza, perché so di essere una persona che purtroppo si prende tanto sul serio. E allora, oggi, mi impongo di fare anche le cose importanti giocando. In fondo, per presentare questo tour teatrale che apre la stagione musicale al Castello Sforzesco mi sono messo nella cabina armadio con Lady Gaga che mi osserva! Devo rompere un po’ questo meccanismo come se fossero veramente degli esercizi psico-magici che mi dicono ‘Ricordati che comunque stiamo giocando tutti’. Non so se questa sia una visione pazza oppure abbia senso però per me, in questo momento, è estremamente d’aiuto.
Quanto ti sta anche liberando da certe aspettative, altrui o personali?
Guarda, soprattutto mi solleva dalle auto-aspettative perché io sono severissimo con me stesso. Ho impiegato anni per imparare a convivere con l’errore però lo facevo comunque in maniera sofferta. Ricordo che, da bambino, quando cadevo o vedevo qualcuno cadere, la prima reazione era scoppiare a ridere. Quando capita a grande, invece, quella caduta è un atto di umiliazione, di vergogna. Adesso voglio tornare a dire ‘ma porca miseria sono caduto, che scemo!’, voglio ridere della mia goffaggine. Poi ovviamente se ti fai male è un’altra storia (sorride, ndr)… però, ecco, cercare di riprendere quell’attitudine all’ironia o meglio proprio al gioco per rompere il velo della realtà e trasformarlo scrivendoci sopra una storia di fantasia.
In quanto tempo hai scritto lo spettacolo che porti allo Sforzesco? È nato subito con queste intenzioni che mi hai raccontato?
No, all’inizio l’ho scritto in maniera tradizionale e ci ho messo tantissimo, tipo un mese e mezzo. Mi ero immaginato una cosa che aveva una sua struttura con apertura, seguito e tutto quanto. Poi, però, mi sono detto che stavo raccontando il gioco ma non stavo effettivamente giocando. Allora, ho cestinato tutto quanto e sono ripartito come avrebbe fatto un bambino e me la sono voluta vivere come fosse uno spettacolino. Ecco, allora, che gli ospiti non sono ospiti e forse anch’io non sarò proprio io là sopra. Questo per darsi la possibilità di essere qualsiasi cosa.
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C’è proprio il gioco di togliersi completamente le proprie personalità ed essere completamente spudorati nel fantasticare. Con questo approcci, dopo che mi ero accorto che forse stavo perdendo la il focus, ho riscritto tutto da zero e ci ho messo due giorni. È stato proprio un flusso anche perché giocare è la cosa più facile del mondo, improvvisarsi nel gioco è spontaneo e naturale. Forse da adulti ce ne vergogniamo e facciamo molta più fatica a giocare perché ci insegnano a comportarci in modo necessariamente serio. Ma io credo che nel gioco ci sia molta serietà. In fondo, se ci pensi, riesci a ricordare qual è stata l’ultima volta in cui hai giocato? Io non riesco.
Quindi dico che forse non abbiamo mai smesso, non c’è stata un’ultima volta ma c’è stato un dimenticarsi che esisteva quella possibilità. E adesso voglio darmi la possibilità di riprenderla con la consapevolezza anche di sembrare un pazzo scatenato però anche quello per me è gioco. Nello spettacolo ci saranno dei momenti che in passato avrei detto detto ‘io questa cosa non la faccio, non la posso fare perché devo difendere il progetto Michele Bravi’. E infatti potrei dire che questo spettacolo non ha come protagonista Michele Bravi ma avrà come protagonista qualcun altro. Ruota tutto intorno al decostruire la mentalità che ci ha fatto dimenticare che il gioco è una possibilità.
L’esperienza ad Amici 22
Ti abbiamo visto coinvolto nell’ultima edizione di Amici: quanto ti ha aiutato il confronto con talenti giovanissimi?
È stato davvero un percorso bello anzitutto perché mi ha fatto ritoccare con mano quel tipo di attrito emotivo che si prova la prima volta che ci si espone davanti al pubblico. Mi ha fatto ricordare molte cose perché le rivedevo succedere e, quindi, c’è stato un gioco di empatia molto forte. Inoltre, ti dico, che per me lavorare con Maria è veramente una grande lezione perché credo che lei sia la più grande professionista con cui io abbia avuto la fortuna di lavorare. Vedere il suo sguardo analitico, la sua capacità empatica, la sua forza organizzativa e il suo istinto al gioco per me è stato estremamente d’ispirazione. E lo è tuttora. Per me è stata per me è una cosa positiva tanto che il fatto di tornare a scherzare e a farsi vedere anche goffi è una cosa che involontariamente mi ha suggerito proprio Maria. Non so dirti bene come, ma mi ha mosso dei meccanismi che poi mi hanno portato a tenere questo come tematica centrale.
Dicevi di esserti ritrovato nei ragazzi della scuola, ma c’è qualcosa che invece contraddistingue questa nuova generazione che tenta la via del talent? C’è più consapevolezza, preparazione o altro?
Hai centrato proprio la questione perché, per me, è proprio una questione di preparazione. Quando mi sono approcciato io al talent ormai una decade fa, c’era un modo di usufruire del talent estremamente diverso. Era un modo per arrivare al pubblico ma era possibile arrivarci anche senza essere preparati. Per dirti, la mia esperienza musicale prima del talent era semplicemente cantare in pizzeria e scrivere le mie cose che rimanevano incompiute. Non c’era un metodo rispetto alla passione ma c’era una completa, sporca e pura amatorialità.
E ci ho messo del tempo per inquadrare effettivamente non quello che dovevo essere ma quello che volevo essere. Adesso, invece, mi rendo conto che i ragazzi in generale si approcciano al talent con già una direzione e una preparazione molto più solida. Arrivano con dei pezzi tecnicamente scritti bene e hanno delle idee chiare. Credo che questo sia legato al fattoi che la possibilità di accedere alla musica è cambiata, non solo come ascoltatori ma anche proprio come produttori. Anche se la qualità può essere scarsa, oggi si può anche lavorare con un telefono o con un computer che rappresentano un primo approccio. Quindi su questo riconosco una preparazione che io assolutamente non avevo.
Che cosa senti di aver insegnato ai ragazzi?
Insegnato niente… forse, e magari mi sto dando un merito che non ho, ho cercato di far capire loro che il giudizio esterno serve per identificare le persone a cui ti vuoi rivolgere. Cioè, nel momento in cui non ti interessa una fetta di pubblico che ti dice ‘non mi piaci’ non succede niente. Invece, nel momento in cui la fetta di pubblico che ti interessa ti sta dicendo che non ha capito allora vuol dire che va fatto uno sforzo. Tecnico, espressivo, narrativo, di scrittura e di interpretazione.
Credo che si possa usare il giudizio esterno come metro per capire a chi stai parlando e come gli stai parlando. Quindi è utile se ti interessa correggere la comunicazione che stai usando musicalmente. Del resto, può anche essere giusto che qualcosa non venga capito perché la musica non può parlare a tutti. È giusto capire a chi stai cantando qualcosa perché devi considerare un riscontro costruttivo nei tuoi confronti. Non si può parlare a tutti, questa è la sintesi massima, ma si può parlare alle persone giuste.
E cosa succederà a partire dal 22 giugno? Che estate sarà la tua?
Nessuna vacanza per me, adesso sento veramente il bisogno di concretizzare gli appunti e le cose che ho a livello musicale. È arrivato quel momento e quindi. per me, quest’estate è dedicata completamente alla scrittura. Voglio proprio vivere un’estate immersiva su questo, sia perché così è ho una scusa per sfuggire dal caldo sia perché è arrivato il momento di farlo.
Foto da Ufficio Stampa WFY