Saranno tra i protagonisti del Corona Sunsets Festival World Tour, che si terrà il 22 luglio al Teatro del Silenzio (Lajatico): i Planet Funk sono pronti a regalarci un set unico e nuovo, come ci racconta Alex Neri. Il 2 giugno è infatti uscito per Just Entertainment di Sergio Cerruti Any Given Day, il nuovo singolo, che segue The World’s End (rilasciato a gennaio). Un viaggio che ci condurrà al nuovo progetto, in uscita in autunno.
Partiamo da Any Given Day. Come nasce?
«È un percorso che parte da molto lontano. Alcune canzoni di questo nuovo album le abbiamo scritte quando Sergio Della Monica era ancora in vita. È scomparso quattro anni fa mentre stavamo scrivendo l’album. C’è stato un po’ di smarrimento da parte del gruppo. In parte per il dispiacere, in parte per il nostro modo di fare musica. Il percorso di questo disco è quindi molto strano, parte con Sergio. Any Given Day è una delle canzoni che avevamo scritto con lui. Durante il Covid io, Marco e GG – i tre Planet rimasti – abbiamo deciso di riprendere le canzoni e di finirle. Ci siamo però buttati in una strada nuova dei Planet Funk. Volevamo un nuovo suono e, anche se avevamo scritto le canzoni con Sergio, abbiamo cambiato la produzione».
Quanto avete cambiato il suono dei brani?
«Sono diversi da come erano nati, ma per rispetto e per mantenere vivo il ricordo di Sergio abbiamo tenuto le canzoni e così sono state finite. Nell’album nuovo ci sono diverse sorprese. Ci sarà ad esempio l’ingresso di una nuova cantante che abbiamo incontrato strada facendo, mentre scrivevamo l’album. L’album uscirà in autunno, è già finito».
Planet Funk, la riconoscibilità del suono
In che modo negli anni avete cambiato il suono dei Planet Funk senza modificare il vostro DNA?
«Molto organicamente. Pensa che Sergio non era un chitarrista puro. Noi siamo un collettivo e, quando avviamo il processo di scrittura, ognuno di noi si trova a usare ogni strumento. Non c’è un ruolo preciso all’interno della band. Sergio ci ha caratterizzato con quel suono un po’ psichedelico di chitarre. Ora ci siamo spostati un po’ di più sull’elettronica e meno sulle chitarre. Ma direi che è vero e non vero, perché poi in alcuni pezzi le chitarre sono molto rock e indie. Abbiamo cambiato e non cambiato: è un percorso nuovo e si sente che non c’è nulla di copiato dei vecchi Planet Funk, però si riconoscono. Chi ci conosce da tempo lo sentirà che siamo noi».
Il vostro DNA è chiarissimo: qual è il vostro segreto?
«Te lo svelo! Quando agli esordi siamo usciti in Inghilterra, non riuscivano a catalogarci come genere. Eravamo finiti nei cosiddetti hybrid che nessuno capisce. La nostra è una contaminazione di mondi. Io ovviamente ho portato il mio background da clubber, le ritmiche molto elettroniche. Intendo la dance come internazionale e non italiana. In Italia si fa confusione quando si parla di dance, si pensa alle cose commerciali. La dance internazionale è un’altra cosa, anche i Massive Attack sono dance. Noi siamo riusciti a lasciare gli spazi giusti alle batterie e alle chitarre, così che si sentano tutti i suoni. Abbiamo trascorso tanti giorni di studio, sperimentando per trovare il nostro suono. È stata la nostra prerogativa e ne vado fiero, perché quando senti i Planet li riconosci. In un mondo in cui le canzoni sono tutte uguali, avere un tuo DNA e una tua riconoscibilità è già un successo».
E nel nuovo album?
«Anche nel nuovo album abbiamo cercato di non perdere il nostro DNA, le nostre frequenze e il modo di usare le chitarre che ci portiamo dietro dagli esordi. Questo è il nostro segreto: abbiamo trovato un modo di trattare i suoni acustici trasformandoli in elettronica. È una formula che rimane sempre, che ci sia un membro dei Planet Funk o quattro».
La musica dance
Perché parli di dance internazionale e non italiana?
«Purtroppo in Italia veniamo da un background dance commerciale. Quando parli di dance, pensi a Bob Sinclair e a Gigi D’Agostino, i più noti. In realtà per noi che veniamo dalla dance underground degli anni ’80 e dei primi ’90 è sempre stata una cosa da esportare nel mondo. È una delle poche cose che potevamo esportare cantando in inglese. Ha dignità. Ancora oggi pochi sanno che siamo italiani. Il che la dice lunga sulla percezione. Per me la musica dance è dignitosa, ha un DNA elettronico molto forte che ci appartiene».
Inoltre, non si può ridurre la dance a un’unica categoria.
«La parola dance vuol dire ballo. In realtà tutto ciò che è ballabile, non solo con la cassa in 4, è dance. Abbiamo questo approccio. Ogni tanto ci mettono in quella categoria a cui non sentiamo di appartenere. C’è una ricerca incredibile di testi e suoni, siamo maniacali. Per Inside All The People siamo stati 40 giorni in studio per il remix, per darti un’idea. Forse diamo troppa importanza al suono, ma è la nostra caratteristica».
La collaborazione con Cenzo Townshend
La differenza però, alla fine, si sente.
«Nell’ultimo album c’è un plus, una cosa che non avevamo mai fatto. Abbiamo fatto mixare il disco da Cenzo Townshend, mixing engineer inglese. Uno che ha vinto diversi premi e che mixa i Depeche Mode e i guru della musica. Tutta l’indie inglese la mixa lui, ha dato un plus incredibile a tutte le canzoni. Mi sbilancio: a livello di suono è l’album che suona meglio in assoluto tra quelli che abbiamo fatto. Un lavoro incredibile. Mi sono reso conto che il mixing è un altro mestiere, ognuno devo fare il suo. Cenzo ha dato un gusto del 30% al suono, non credevo ci fosse un margine così ampio quando gli abbiamo consegnato l’album».
I Planet Funk al Corona Sunsets Festival
Come sarà invece il set al Corona Sunsets Festival?
«La location è bellissima. Sarà un set simile a quello che stiamo portando in giro quest’estate. Dobbiamo accorciarlo un po’ perché siamo tanti quella sera, ma comunque suoniamo quattro pezzi dell’album nuovo. Ci saranno Dan Black e Alex Ulhmann. Io curerò la parte elettronica, Marco Baroni suona le tastiere e i cantanti suonano le chitarre. Sarà un ibrido electronic live, lo dico con presunzione ma è molto ben riuscito. C’è anche un bel progetto visual, ci stiamo divertendo. Siamo orgogliosi».
I visual per voi sono sempre molto importanti del resto.
«Se ci pensi, è così. Abbiamo vinto diversi premi. Essendo un collettivo, non vendiamo le nostre facce ma la nostra musica. La leghiamo molto alle fantasie. È fondamentale per noi che la nostra musica sia accompagnata dai visual».
In questo, sin dagli esordi, avete anticipato una tendenza.
«Il nostro percorso è lungo, parte dal ’99. Nella musica succede che cambi casa discografica e i budget diminuiscono negli anni. Per far le belle cose servono soldi. Anche perché il lavoro è lavoro e va pagato. Il video di The World’s End ci è costato molto, alla fine però i sacrifici li facciamo perché è nel nostro DNA. Oggi ci confrontiamo con un mercato fatto di trapper che si fanno i video da soli coi telefonini. A volte ti chiedi se ne vale la pena e perché lo fai. Nel mondo della musica di fruizione, si è abbassata la qualità delle immagini e dei video. Non entro nel discorso musicale perché è soggettivo».
Le nuove generazioni e la tecnologia
Non giudichi quindi le nuove generazioni?
«Diciamo che non trovo giusto dire che i giovani non capiscono. Ho la mia visione e in parte li comprendo. Nei loro testi i giovani di oggi si ritrovano. Le immagini, invece, sono spesso cheap e poco artistiche. I video sono tutti uguali, non c’è voglia di raccontare qualcosa di diverso. Noi da sempre abbiamo giocato con la tecnologia e con il suo lato umano. A volte abbiamo voluto essere provocatori, perché anche noi non possiamo sapere dove arriverà la tecnologia. Siamo alle porte di un cambio epocale con l’Intelligenza Artificiale. Cambierà il mondo e cambierà anche la musica. Noi abbiamo sempre sperato che la tecnologia fosse al servizio dell’essere umano e non viceversa. La mente umana ha un’imprevedibilità che un computer non potrà mai avere. Se penso alla musica fatta con l’IA, mi chiedo cosa succederà. Le cose più belle nella musica sono nate da errori umani».
Non resta che augurarsi il meglio.
«Speriamo che resti spazio per la creatività umana. L’altro giorno parlavo con Dan Black del fatto che ancora suoniamo e che la gente canti i nostri brani. Non capita a tutti gli artisti. Siamo grati ma ci dicevamo che alla fine il bello della nostra vita è stata la ricerca e la passione. Poi è arrivato il successo, ma è sempre stata una cosa in più per noi. Siamo innamorati del percorso e non dell’obiettivo».
L’importanza della coerenza artistica
Forse anche questo è il segreto dei Planet Funk?
«Nessuno di noi in qualche modo è stato affascinato dal successo, quando è arrivato l’abbiamo vissuto con umiltà. La vita artistica è fatta di alti e bassi. Anche per questo è più importante il percorso ed è lì che godo, è lì il bello. Se voglio trovare un suono, ci perdo anche un mese. Forse paga questo: non subiamo il mangia e sputa immediato per colpa del quale i giovani non si godono nulla e non hanno il tempo per costruire qualcosa di solido. Sono contento di non far parte di questa filosofia».
C’è anche coerenza.
«Settimana scorsa eravamo a Napoli, dove il pubblico è sempre meraviglioso. Un ragazzo è arrivato e mi ha detto: Vi adoro perché siete onesti. È un grandissimo complimento per un artista. Siamo coerenti quindi onesti, nel bene e nel male».