Dardust: 'La nostra arma segreta? La potenza del live'.
A marzo del 2016 ha visto la luce Birth, il nuovo album (pubblicato per INRI/Universal) di Dardust, secondo capitolo della trilogia che ha preso il via con 7, uscito nel 2015.
Più che di capitoli, in realtà, si dovrebbe parlare di ‘tappe’, visto che Dario Faini – ideatore dell’intero progetto musicale (nonché noto autore di hit italiane, tra cui La tua bellezza di Francesco Renga e Scintille di Annalisa) – ha tracciato un vero e proprio viaggio all’interno della musica neoclassica strettamente legato ad alcuni luoghi e alle conseguenti suggestioni che essi evocano. 7, il disco d’esordio, è stato infatti registrato a Berlino, mentre per Birth Dario si è spostato nelle lande desolate islandesi, scegliendo di registrare l’album nei Sundlaugin Studio a Reykjavík (che ha ospitato, tra gli altri, nomi del calibro di Sigur Ros, Jon Hopkins e Damien Rice). Per il terzo e ultimo disco, Dardust ha invece già scelto Londra, città a cui non mancano certo storia musicale e ispirazioni. Nel frattempo, abbiamo voluto però scambiare quattro chiacchiere con Dario Faini, per capire qualcosa in più su questo peculiarissimo progetto.
Ciao Dario, vorrei iniziare subito a parlare di questa trilogia. In che modo ognuno di questi album riesce ad essere un progetto a sé stante e nello stesso tempo parte di un insieme?
Sai, Dardust è un progetto molto particolare. Ha come obiettivo quello di unire due anime lontane, quella classica e minimalista e il mondo più elettronico. Il tutto senza l’uso delle parole e della voce, come invece accade convenzionalmente. In un periodo discografico come questo, abbiamo pensato che un progetto simile avesse bisogno di più tempo per trovare una propria identità. Ho pensato dunque di darmi il tempo di realizzare questi tre album e per farlo ho deciso di tornare in posti in cui un certo tipo di immaginario ha alimentato la mia fantasia musicale durante l’adolescenza.
Stai parlando quindi di Berlino, Londra e dell’Islanda…
Sì, ho iniziato da Berlino, dove due leggende come David Bowie e Brian Eno hanno dato vita a un’intensa produzione berlinese. Poi sono passato all’Islanda che ha una scena musicale ricchissima, dai GusGus ai Sigur Ros. E infine terminerò a Londra, patria di tanti movimenti musicali. È un viaggio in tre tappe, in cui le due anime – classica e elettronica – trovano un’identità e un equilibrio.
A proposito di anime e identità, l’album Birth ha sicuramente una doppia faccia…
7 aveva una scrittura molto neoclassica, mentre Birth raggiunge un maggiore equilibrio. Ci sono 5 brani slow e 5 brani loud, proprio per diversificare ed estremizzare le due anime del progetto. Possiamo dire che queste due anime vengono portate agli estremi. Nel prossimo album vedremo dove andremo a parare, devo confessare che non ho ancora le idee chiare.
L’Islanda è una vera fucìna di suggestioni musicali, ma devo chiederti in che modo si riesce a trasformare in musica un’immagine paesaggistica…
È difficile da spiegare, è qualcosa che riguarda l’immaginario visivo. Il nostro obiettivo era quello di trasformare i landscapes in soundscapes e si tratta di una trasformazione non matematica né chimica. È molto emotiva e personale, quindi non c’è una formula e non saprei descriverti in che modo è avvenuto questo processo. Sicuramente ci sono dei riferimenti musicali, come i Sigur Ros, ma credo che siamo comunque riusciti con una nostra maniera personale e una nostra identità a trasformarli in qualcosa che spero sia unico.
Parliamo invece del singolo The Wolf? Ho letto alcune tue interviste in cui raccontavi questo brano e mi sono incuriosita nel sentirti parlare persino di Game of Thrones e di Lady Hawke…
(Ride, ndr) Sì, la location del video è Rocca Calascio, in Abruzzo, dove sono stati girati Lady Hawke e Il Nome della Rosa. In quel periodo poi stavo guardando Game of Thrones, come miliardi di persone su questo pianeta. Come racconto però mi piaceva l’idea di ricollegare questi video agli altri due video di 7, quindi Sunset on M. e Invisibile ai tuoi occhi, che narrano la storia di un bambino astronauta che viaggia nel tempo. Volevo tuttavia che il primo video di Birth riuscisse anche a distaccarsi da quel contesto, tuffandosi in un periodo storico completamente diverso. L’unico modo che ho trovato per mantenere un legame e nello stesso tempo decontestualizzare il video è stato girarlo in quell’immaginario. Alla fine del video c’è un Cavaliere, una sorta di Jon Snow errante, che ritrova i resti dell’Astronave. Questo salto spazio-temporale che unisce i tre video mi piace molto.
C’è un singolo in Birth, Don’t Skip (Beautiful Things Always Happen At The End), in cui invece parli apertamente di un modo predominante di fruizione della musica al giorno d’oggi che rende i progetti come il tuo di difficile impatto. Qual è la difficoltà maggiore che incontri proponendo la tua musica?
È una situazione molto complicata. La forza maggiore di un progetto come il nostro è il live. Nel live – e lo vediamo anche noi – c’è l’arma del passaparola, che è lo strumento promozionale più potente. Il nostro live è qualcosa di unico, sia per la teatralità che per il tipo di performance visiva. Per la promozione a livello discografico, invece, è ovvio che in un contesto in cui dominano i talent – in cui ti affezioni all’artista dopo averlo seguito per mesi e mesi – o i big, ci collochiamo in un contesto completamente differente e lontano forse persino dal mondo indie. Qui non ci sono parole, non è un progetto cantautorale né un progetto totalmente elettronico, perché è un crossover, ma non è neanche neoclassico. Come vedi, un progetto con così tanti spunti può trovare la sua forza proprio nel live. per cui invito tutti a venire a vederci dal vivo.
In effetti, un progetto puramente strumentale è già peculiare di per sé, sebbene poi sia anche questa a sua volta una nicchia…
Sì, a questo proposito devo dire però che in un solo anno di lavoro sono successe tantissime cose e questo mi fa ben sperare. Il progetto è cresciuto in un anno in modo esponenziale e neanche io me lo aspettavo. Siamo molto felici e puntiamo sempre più in alto, ovviamente continuando così, quindi credendo in tutto e curando ogni dettaglio.
Volevo tornare un attimo al live. Visto che hai invitato i lettori a venirti a vedere, raccontaci qualcosa in più…
Il live è incentrato molto su Birth e una parte fondamentale del concerto riguarda il visual e le luci di Pietro Cardarelli, che ha creato un’astronave tra fulmini, geiser, tempeste… L’aspetto visivo di Dardust è fondamentale. Musicalmente, si parte invece dalla parte slow, con brani quindi più neoclassici, e poi si va nella parte loud, che chiude il live. C’è una parte in cui io, Vanni Casagrande e Sergio Grandoni con tre rullanti facciamo una sorta di battaglia, un inno per un ipotetico conflitto, simbolo della battaglia tra le due anime dell'album per trovare un equilibrio. È tutto simboico e mi sono accorto che è uno dei momenti che il pubblico apprezza di più.