Abbiamo incontrato Ermal Meta per una chiacchierata ricca di spunti di riflessione. Dall’arte all’impero dei numeri, dai giovani al ruolo della critica. L’intervista.
Sul palco di Buon compleanno Mimì ha portato un capolavoro come Almeno tu nell’universo, ascoltato per la prima volta quando era solo un ragazzino alla scoperta della musica italiana. Oggi, Ermal Meta ha uno sguardo ben diverso sul mondo e sull’arte, con una visione che lascia poco spazio alla speranza di fronte alle brutture che la cronaca ci racconta. Dal ruolo che l’arte dovrebbe avere all’impero dei numeri nella musica, dall’incapacità contemporanea di aggiustare cose e persone a un auspicato confronto critico. Ecco che cosa ci ha raccontato Ermal Meta.
Quando hai incontrato il repertorio di Mia Martini e come ti confronti oggi con il suo mondo?
Io Mia Martini l’ho conosciuta da piccolissimo, vivevo ancora in Albania. Ricordo che mi diedero banalmente una cassetta con delle canzoni italiane: la prima canzone era Almeno tu nell’universo e la seconda era Mare mare di Luca Carboni. È allora che ho conosciuto Mia Martini per la prima volta, avevo 11 anni.
Per il palco di Buon compleanno Mimì hai scelto Almeno tu nell’universo, uno dei brani che definire intensi è riduttivo per un pezzo poetico che racconta di sé e del mondo. C’è lo strazio, e c’è la preghiera; buio e luce. Come mai hai scelto di metterti alla prova proprio con questo capolavoro?
È difficile, molto molto complicato perché nessuna cantante e nessun cantante al mondo possono cantare quella canzone. Bisogna partire da questo presupposto. L’emotività di Mia Martini non la si può raggiungere, qualunque cosa tu possa fare poichè la motivazione e il sentimento da cui viene fuori tutto quello non li si può toccare. Resta qualcosa di intoccabile quindi ne devi fare un’interpretazione personale. È una canzone meravigliosa che dentro ha l’arte dello scrivere canzoni. Da musicista, oltre alla scrittura in sé e alla bellezza della musica, Almeno tu nell’universo è una canzone facile da ascoltare ma estremamente complessa da scrivere. Tecnicamente è difficile e non a caso è firmata da un certo signor Maurizio Fabrizio su testo di Bruno Lauzi.
È un capolavoro di armonia, di testo, di melodia e di interpretazione. Quindi, interpretarla oggi è come camminare sulle orme dei Giganti sotto tutti i punti di vista. Non è semplicemente la canzone, è la composizione musicale che ha un valore importante; come se tu guardassi il David di Donatello. E non è soltanto la struttura o la scultura pazzesca, è pensare che sia stato realizzato cinque secoli fa, non con gli armesi che si hanno oggi. Non la puoi estrapolare dalla sua estrema complessità però è fatta talmente bene che tu l’ascolti e ti sembra facile, addirittura canticchiabile. La genialità sta proprio in questo: nello scrivere una cosa che all’ascolto sembra facile ma dal punto di vista compositivo è complesso per una canzone pop.
C’è un passaggio che ti emoziona più di altri?
Beh, un punto sei che non ruota mai intorno a me è, secondo me, la frase che racchiude la canzone. Un sole… l’autore era la ricerca di qualcosa che non cambiasse in un mondo all’interno del quale tutto cambiava così rapidamente. Lì dentro, in quella canzone, si cerca un punto fermo il famoso ‘centro di gravità permanente’ che cercava anche il compianto Franco Battiato.
In questo brano si ritrova una contemporaneità che sconvolge nello sguardo sociale riportato anche ai social di oggi. La gente che segue il mondo ciecamente / E quando la moda cambia / Lei pure cambia… scioccamente. È il racconto anche di una perdita di autonomia del pensiero.
Noi rimaniamo sempre in superficie, siamo dei mordi e fuggi, mentre bisognerebbe fare un passo indietro anzi forse dieci ma, più che indietro, sotto. Bisognerebbe andare sotto e vedere che cosa c’è lì. Parliamo di questa mancanza di durevolezza delle cose legata a un mondo in cui il vademecum è il consumismo. Oggi bisogna consumare, bisogna cambiare il telefono ogni anno, le cose non si aggiustano più anzi non sono più fatte per aggiustate. Nulla è più pensato per essere aggiustato ma per essere cambiato: macchine, televisori, scarpe, vestiti, qualsiasi cosa. E così anche le persone; noi non aggiustiamo i rapporti ce ne facciamo di nuovi. Così nella musica non cerchiamo la canzone che ci emoziona di più: non ci piace? Passiamo alla prossima e poi alla prossima e alla prossima ancora. Manca la ricerca dell’umanità all’interno delle cose, perché ogni cosa ha un’umanità.
E in un mondo che chiede di essere veloci, la ricerca chiede tempo e impegno.
Assolutamente. Richiede impegno, tempo e skills. E tutto questo si riflette in ogni cosa che fa l’essere umano. Non è una questione di nostalgia, prima noi eravamo diversi; non sono gli altri, siamo sempre noi. Quelli siamo noi, che non aggiustiamo più le cose, non aggiustiamo più le persone, i rapporti e non aggiustiamo più noi stessi. Ormai noi passiamo avanti e, in questo modo, accumuliamo così poca conoscenza di quello che ci circonda che non siamo in grado di trasmetterla. Motivo per cui i nostri figli oggi capiscono molto meno di quello che capivamo noi alla loro età. Leggevo di un sondaggio anonimo nelle scuole medie da cui risulta che i ragazzini oggi non ritengono un crimine lo stupro, capisci? Questi, a venti – trent’anni, chissà cos’altro non riterranno un crimine.
Ma già se rimane solo quello è già un problema e se la pensano così non può neppure essere del tutto colpa loro. Non è colpa di un quattordicenne ragionare così. Sono preoccupato, sono molto preoccupato, non c’è niente di confortante. È un’emergenza sociale che si va ad abbattere ovunque e purtroppo credo che non ci sia ritorno. Non ho nessuna speranza, è un ciclo e questo ciclo dovrà finire. È una visione abbastanza nietzschiana ma io non ho nessuna speranza nel fatto che questa ruota inverta il suo corso perché è una ruota totalmente sopraffatta dalla tecnica. E con la tecnica l’essere umano ha smesso di essere umano.
I due grandi poli, scienza e umanesimo.
Ho visto una lectio magistralis di Umberto Galimberti su Nietzsche che spiegava il concetto della morte di Dio. Quando Nietzsche dice che Dio è morto morto non è che Dio è morto, è che se tu togli Dio dal Medioevo non capisci nulla del Medioevo. Ma se lo togli dal mondo di oggi non cambia nulla perché la parola ‘Dio’ è stata sostituita da ‘tecnica’. Oggi non capisci nulla del mondo se togli la tecnica e se togli il denaro, ciò che portala allo sviluppo tecnologico.
L’arte, in questo mondo di brutture, che spazio può trovare? È ancora un baluardo della bellezza?
Certo, e lo sarà sempre. L’arte sarà sempre un baluardo della bellezza ma non tutto quello che viene presentato come arte è arte. In tante occasioni, per esempio, i giornalisti quando fanno le loro recensioni parlano in termini entusiastici di una sola cosa: i numeri. Ma non sono i numeri a fare l’arte, il problema è che oggi gran parte delle persone capiscono solo i numeri e su quello fondano l’idea della qualità. Ma, ripeto, la qualità non ha a che fare con i numeri perché se così fosse Van Gogh non sarebbe stato un artista perché non ha mai venduto un quadro in vita sua. Non sono i numeri a fare l’arte solo che i giornali elevano i numeri all’arte e alla qualità, ma i numeri non c’entrano niente.
Ma cosa sono? Di cosa fanno parte? Della tecnica. E le persone i numeri li capiscono mentre non capiscono il resto. Tu vali di più e allora vuol dire che sei più bravo, ma non è così. Quindi se cominciamo a togliere i numeri riusciamo anche probabilmente ancora a parlare di arte come baluardo della bellezza. Ma ad oggi, in realtà, nessuno sa più che cosa sia la bellezza. Che cosa commuove e perché commuove? Ciò che colleghi a un pezzo della tua vita. Questo non avviene più, a maggior ragione con le nuove generazioni. Quindi, coloro recensiscono i dischi dovrebbero smettere di parlare di numeri e dovrebbero parlare di canzoni, di significati.
Prima chi recensiva dischi era zelante nei confronti di chi scriveva la canzone, adesso sembra di essere tutti alla corte dell’imperatore. Una cosa orribile, è orribile. Io, come artista, voglio essere criticato, non voglio essere osannato o adulato. Io, artista che scrivo, voglio essere criticato ma non come hanno fatto con Ultimo e Il Volo a Sanremo; voglio essere criticato in maniera costruttiva, instaurando un dialogo.
Ciò significa anzitutto avere un terreno comune di confronto.
Significa intavolare una discussione e cercare di capire cosa secondo te va e che cosa non va in quello che io dico o scrivo. E magari riesco anche a farti cambiare idea ma senza che ci sia un terreno comune su cui incontrarci si rimarrà due trincee diverse e ci si sparerà a distanza. Questo non è a parlare di arte e considerare l’arte come ‘baluardo’ diventa pericoloso perché vuol dire che è rimasta l’ultima fortezza che difende la bellezza. L’arte è una coscienza storica e la coscienza sarà il collante che tiene insieme l’identità nazionale di un paese. L’Italia senza l’arte non sarebbe l’Italia. E non può essere solo l’arte a difendere la bellezza, perché la bellezza dovrebbe essere ovunque e dovremmo difenderla.
Foto da Ufficio Stampa