Per la terza volta nella sua carriera, Rocco Hunt calca il palco di Sanremo e lo fa portando uno dei pochi brani sociali del 2025. La nostra intervista.
Terza volta al Festival di Sanremo per Rocco Hunt che nell’edizione 2025 sale sul palco del Teatro Ariston con il brano Mille vote ancora. Un ritorno che arriva a quasi dieci anni dal trionfo tra le Nuove Proposte (era il 2014) con Nu juorno buono – prima vittoria di un brano hip hop in lingua napoletana nella categoria – e la partecipazione tra i Big nel 2016 con Wake Up. Nel mezzo, una carriera che mantenendo le sue radici rap e urban, ha spaziato tra i generi facendo ballare intere generazioni con le hit di successo internazionale.
A 30 anni, oggi, il rapper salernitano vanta oltre 40 dischi di platino tra Italia, Spagna e Francia – dove ha ottenuto anche un disco di diamante –, più di 2,5 miliardi di stream e collaborazioni prestigiose. “Sanremo? Ci sarei tornato solo con la canzone giusta”, ha scritto sui social, anticipando che il pezzo in gara rappresenta una delle pagine più importanti della sua storia artistica e personale.
Torni al Festival di Sanremo con un brano che riannoda i fili con i due brani che hai portato all’Ariston in passato, creando una forte coerenza ma con la maturità di oggi.
Sì, c’è stata una bella evoluzione in questi dieci anni di assenza dal Festival. Il brano Mille vote ancora è nato in modo molto spontaneo, senza la ricerca forzata di una canzone per Sanremo. È venuto fuori in maniera naturale, e questo mi rende felice, perché mi rappresenta pienamente: rappresenta la mia storia e ciò che sono adesso. Rimango fedele alle mie tradizioni, ma allo stesso tempo questa canzone esprime anche la mia crescita e la mia evoluzione.
Mille vote ancora è una delle poche canzoni in gara quest’anno che contiene riferimenti al sociale, all’attualità e all’ambiente in cui sei cresciuto e che conosci bene. Tra un verso e l’altro emergono immagini forti, anche di denuncia. Cosa vorresti trasmettere da questo punto di vista?
È nato, come dicevo prima, in modo davvero spontaneo. Ero in studio e ho sentito la necessità di raccontare la mia storia, di dare voce a tutte quelle persone che lasciano la propria terra in cerca di un’identità, di un futuro. È anche un monito, un consiglio alle nuove generazioni, affinché diano valore alla vita e non la sprechino per motivi futili. Mi rivolgo soprattutto ai ragazzi della mia terra, ma non solo: questa non è una canzone che parla di Sud o Nord, è una canzone che parla di giovani, di ragazzi italiani indipendentemente dalla regione di provenienza.
E rappresenta anche quella nostalgia profonda che si prova quando si lascia casa, quando si è costretti ad andarsene e poi, con il tempo, si finisce per rimpiangere perfino le cose che ci hanno spinti a partire. C’è una velata tristezza, quella saudade, quella pucundria, come la chiamiamo noi, che però viene bilanciata da un ritmo incalzante, da una cassa forte che, una volta partita, non si ferma più. Questo contrasto tra malinconia e energia dà equilibrio alla canzone.
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Se dovessi scegliere un verso manifesto, magari da tatuare, o comunque quello che ti emoziona di più cantare in questo brano, quale sarebbe?
Ce ne sono tanti. Dall’inizio alla fine del pezzo, ci sono diverse frasi che sento davvero sulla pelle. Infatti, ho scritto io tutto il testo proprio perché volevo che ogni parola mi appartenesse profondamente. Se dovessi sceglierne solo una, probabilmente direi quella in napoletano: “me vonno fottere l’anema ma je ‘ccu poco sto buono”. Che tradotta, significa più o meno: “Vogliono rubarmi l’anima, vogliono cambiare la mia essenza” In napoletano, fottere significa “rubare”, quindi quando dico “me vonno fottere l’anema” intendo che vogliono travisare ciò che sono, provare a cambiarmi. Ma la verità è che io mi accontento di poco, rimango sempre un ragazzo del Sud, fedele alle mie tradizioni. Questa frase rappresenta al meglio il mio essere e la mia identità.
Come sarà allora, su quel palco, calibrare la concentrazione con l’aspetto emotivo?
Eh, sicuramente sarà dura, perché ogni volta che parlo di questa canzone, ogni volta che la canto, mi emoziono profondamente. Mi metto in prima linea ed è sempre un impatto forte. Dovrò cercare di distaccarmi un po’, di non farmi sopraffare dall’emozione e concentrarmi maggiormente sull’aspetto esecutivo, sull’interpretazione tecnica. Finora ho provato il brano cinque volte con l’orchestra, e ogni volta mi sono emozionato. L’orchestra stessa ha percepito questa mia emozione, l’ha notata e mi ha trasmesso la giusta serenità per riuscire a dare il meglio di me. Spero davvero di riuscire a fare un’esibizione all’altezza.
Rispetto alle altre edizioni a cui hai partecipato, quest’anno c’è uno spettatore speciale, diciamo più consapevole: tuo figlio, che vede il papà su quel palco. Cosa ha detto di questa canzone? La canta già? Devi tenerlo a bada per evitare spoiler?
Adesso è cresciuto e ha capito che una canzone non va spoilerata! In passato rischiava sempre di anticipare qualcosa, perché conosceva i brani prima dell’uscita, ma dopo anni di insegnamenti ora ha compreso e sta attento. Anzi, adesso, quando ascoltiamo il pezzo in macchina, è lui a dire: “Papà, abbassa i finestrini che ci sentono!”. Oppure: “Aspetta a mettere la canzone, ci sono i miei amici in casa!”.
Insomma, è diventato molto più responsabile. Quando provo a tendergli la classica trappola e gli chiedo: “Dai, canta un po’ la canzone!”, lui risponde serio: “No, non posso, se no ci squalificano!”. A Natale, tutti a tavola hanno provato a fargli canticchiare qualcosa, ma niente… ormai è un uomo d’onore, rigorosissimo!
Abbiamo parlato di Napoli, Salerno e Milano. Quali sono le immagini e i profumi che leghi a queste città? Cosa rappresentano nel tuo percorso?
Parto dalla città che mi ha dato i natali, Salerno. È il luogo in cui sono nato e cresciuto, e i ricordi che ho sono legati soprattutto al mio quartiere, alla mia infanzia e alla mia adolescenza. Le immagini che descrivo in questa canzone richiamano proprio quei momenti: l’odore del caffè di mia madre, la mia famiglia, le strade in cui sono cresciuto. C’è l’immagine forte di quel bambino che sognava, che ero io. Poi c’è Napoli, la città che mi ha adottato musicalmente. È lì che è avvenuta la mia evoluzione artistica: ho cantato con i più grandi musicisti e cantanti napoletani, e ancora oggi la maggior parte dei miei amici sono napoletani. Napoli continua a essere una parte fondamentale della mia vita.
Infine, il viaggio mi ha portato a Milano, la città che mi ha dato un’opportunità lavorativa e che mi ha fatto diventare uomo. È qui che sono cresciuto, professionalmente e personalmente, ed è qui che sto crescendo mio figlio. Ma, vivendo a Milano, quella nostalgia per il passato si fa sentire, perché certi momenti e certi tempi non torneranno più.
Tu sei un po’ un anello di congiunzione tra la storica generazione rap della scena campana e la nuova scena. E hai fatto un po’ da apripista anche a Sanremo sotto questo aspetto, portando il napoletano sul palco. Che panorama musicale vedi attorno a te in questo momento?
Sicuramente, per me, è bellissimo vedere come dal 2014 a oggi siamo diventati tantissimi. Rispetto ad allora, il rap è ormai un genere mainstream. Quest’anno, in gara a Sanremo, ci sono quasi dieci artisti che provengono dal mondo urban e hip hop. È un segnale forte del fatto che la nostra cultura musicale ha finalmente trovato il suo spazio nel panorama principale.
Sono felice anche perché il napoletano è ormai a tutti gli effetti una lingua musicale riconosciuta e richiesta, persino sul palco di Sanremo. Quando dieci anni fa portai Nu juorno buono, c’erano ancora molti pregiudizi. Sono sicuro che, grazie anche alle battaglie portate avanti in questi anni, quel concetto sia stato sdoganato e che oggi questa musica abbia ricevuto il giusto riconoscimento.
Tornerai soddisfatto da Sanremo se…
Se farò una bella figura su quel palco e se renderò orgogliosa la mia famiglia.
Immagini da Ufficio Stampa