Leo Pari ci racconta il nuovo album ‘Amundsen’: dieci tracce in cui l’esplorazione diventa esistenziale. La nostra intervista.
Si intitola Amundsen il nuovo album di Leo Pari, in uscita venerdì 10 marzo su tutti gli store digitali e in formato CD e Vinile. Dieci brani in cui il cantautore si mette completamente a nudo, cogliendo a pieno la metafora delle esplorazioni di Roald Amundsen che, in questo progetto, diventano ricerche all’interno di sé. «Mi sono imbattuto casualmente nella storia di Amundsen, leggendo un libro. – ci dice Leo Pari – Mi è scattato in mente un parallelismo tra la vita di un esploratore e quella di un artista, che secondo me dovrebbe essere dedicata alla ricerca di qualcosa di nuovo e sempre inesplorato. Avevo intenzione di fare un album che parlasse molto di interiorità e di vita. In qualche modo è stato lampante il parallelismo tra le valli polari e la parte più intima di ciascuno di noi, che spesso è inesplorata. Ed è un percorso impervio quello che si affronta per conoscersi».
Amundsen e la metafora dell’esplorazione
Da qui il leit motiv del «gelo e dei ghiacci», anche se Amundsen «non è un concept album». «Molte canzoni hanno però questi riferimenti. – dice Leo Pari – Dormi parla della neve su Kiev, Un anno freddo della morte di mio padre. Freezer è un brano sulla fine di un rapporto in cui ci si è congelati. Piano piano ho arricchito la tematica».
In fondo alla tracklist, spicca però Fenici. Nella gelida esplorazione di sé di Leo Pari sembra emergere, in questo finale, un senso di rinascita. È voluto? «Certo. – ci risponde il cantautore – È un brano che parla di rinascita. Questo album finisce per poi ripartire. In quella canzone racconto il gelo sociale, perché stiamo vivendo una realtà un po’ frivola, superficiale. Di Fenici mi piace che parta da un punto di vista quotidiano, poi nella seconda strofa il protagonista del brano diventa succube della realtà. Inizia a desiderare gli AirPods e i tatuaggi e, alla fine, l’allineamento con la società è totale. Ormai il personaggio di quella canzone si è arreso ai fatti. Nello stesso tempo, ci ricorda che all’uomo interessa ridere e piangere, provare emozioni forti che ci muovono. Insomma, la parte finale cita un po’ La leva calcistica della classe ’68 di De Gregori, ho volutamente lasciato in sospeso l’album».
La semplicità apparente di Amundsen
Amundsen è, di per sé, un album apparentemente spoglio. Le sonorità sono molto intime, con dei crescendo che somigliano a un’effettiva esplorazione musicale. Ma è una «semplicità apparente – ci dice Leo – perché per fare un brano minimale c’è parecchio lavoro». Roma Est – primo estratto dall’album – ne è un esempio. «Ci sono quasi solo io col piano e alla fine esplode con tutta la band. – commenta il cantautore – Ma è stata una scelta precisa quella di lavorare sui contrasti e sul chiaroscuro, con vuoti immensi e momenti forti di esplosione, quasi di coinvolgimento. Mi fa piacere che si senta che c’è stata questa ricerca, anche a livello sonoro, con texture di sintetizzatori e suoni analogici che hanno richiesto non poco lavoro. Mi sono preso il mio tempo per fare questo disco, ci ho messo un paio d’anni».
Difficile però considerarlo un album della maturità. È più che altro un album consapevole. «Ho sempre considerato i dischi non come un inizio o una fine – dice Leo – ma come tappe di una vita artistica e musicale. Ogni disco è un puntino collegato agli altri, ma può essere anche molto distante. È il mio modo di vedere la musica. In questo, Amundsen è molto vicino a Spazio come matrice. Però più che un nuovo inizio, lo definirei una fotografia di questi ultimi due anni».
La decadenza di Roma
C’è tanta Roma in questi dieci tracce, ma la città non è ingombrante protagonista. Sembra più una nostalgica comparsa, uno sfondo ben visibile in ogni verso. «Sono cittadino romano e in qualche modo percepisco l’influenza di Roma. – commenta in proposito Leo – Devo dire che, negli ultimi anni, la città è anche molto decadente e quindi fascinosa. Roma Est ad esempio è una metafora. Parlo del centro commerciale di Roma Est, che reputo squallido. Le nostre speranze di astronavi che potrebbero portarci delle novità non sono altro che un’illusione».
Anticipandoci due prossimi concerti (l’1 Aprile al Monk di Roma e il 27 aprile all’Arci Bellezza di Milano), Leo Pari ci saluta confessando che Amundsen «ha richiesto la metabolizzazione di alcuni eventi» della sua vita. «Un anno freddo ci ho messo tredici anni a scriverlo – chiosa il cantautore – e poi ho scelto la via più semplice: parlare dritto per dritto di ciò che provavo. A volte la sincerità è anche dolorosa. Non sempre sincero vuol dire semplice. È un lavoro a togliere. Ma la vita non è fatta solo di beltà e gioia televisiva. È piena di tanti passi duri che più si diventa grandi più si affrontano. Faceva bene a me scrivere questo album e ho pensato che potesse essere una medicina anche per gli altri».
Foto: Magliocchetti