Il potere narrativo di un podcast, i fallimenti, l’educazione all’addio: Niccolò Agliardi ci racconta ‘A Domani – La scomparsa di Giacomo’.
È già ai vertici della classifica di Spotify il podcast A Domani – La scomparsa di Giacomo, prodotto da Vois e scritto e narrato da Niccolò Agliardi. Otto puntate che provano a raccontare la vita di Giacomo Sartori, scomparso a Milano nella notte tra il 17 e il 18 settembre 2021. Una storia dolorosa, che – tra le mani di Agliardi, della famiglia di Giacomo e di quanti hanno collaborato a questo podcast – diventa un caleidoscopio di sfumature bellissime. Perché – come ci dice lo stesso Agliardi – «le grandi storie nascono da grandi ingiustizie. E poi, con le giuste capacità e senza la seduzione della retorica, sono capaci di trasformarsi». Nelle grandi storie, però, prima bisogna inciamparci.
«Era un po’ di tempo che cercavo di raccontare qualcosa, per un motivo molto poco nobile. – inizia a raccontarci Niccolò Agliardi sul podcast – Non avendo più in questo momento una gran voglia di dedicarmi alle canzoni, desideravo trovare qualcosa che potesse appassionarmi. Qualcosa che mi facesse innamorare di nuovo dello storytelling. Con le canzoni mi sentivo un po’ costretto, anche per la dimensione del prodotto canzone: oggi ti viene richiesto di concentrare tutto in pochissimi minuti e quel tutto deve essere affrontabile. Si corre il rischio di farlo decadere nella banalità semplicistica. Lo dico senza troppi giudizi sulla contemporaneità, è la mia sensazione». Quando Niccolò inciampa nella storia di Giacomo, sta scrivendo un romanzo sul concetto di resa: «Non era autobiografico. – precisa – È solo che il concetto della resa mi piace molto e credo contenga molti valori. Poi ho riletto alcuni articoli sulla storia di Giacomo, perché mi era accaduto qualcosa di analogo, e ho pensato che davvero la storia si stesse ricostruendo da sola».
A Domani: un mosaico di voci che raccontano l’amore per la vita
La prima puntata di A Domani – intitolata Lo Zaino – parte proprio da questo episodio analogo capitato ad Agliardi, che sin da subito si mette di fronte allo specchio per farci entrare nella vita di Giacomo. Inconsapevolmente, lo specchio finisce poi per riflettere anche l’immagine dell’ascoltatore. «Ho fatto un po’ da demiurgo, mettendo le mani nella creta e cercando di dare una forma a questa storia. – dice Agliardi – Ho capito che più procedevo e più la storia di Giacomo si faceva avanti da sé. Come sempre succede in una storia, per quanto ingiusta. Ho sentito tante voci e il mosaico era coloratissimo. Ci sono anche tratti foschi e cupi, ma oggi sono felice dei risultati anche se sono stanco emotivamente. All’interno di questa storia ci sono mille cose belle, nonostante il dolore e l’epilogo. C’è una quantità d’amore per la vita che ogni tanto bisognerebbe ricordarsi di ricordarci».
C’è una delicatezza nel racconto di questo podcast che non lascia spazio alla morbosità tipica del prodotto true crime. E infatti Niccolò ci dice subito di non aver «mai pensato di fare un prodotto true crime. Non l’avrei saputo fare, non sono un giornalista né un inquirente. Forse non sono neanche morboso. Però i sentimenti mi piacciono». «Ho la sensazione da sempre – continua poi – che sono i grandi inciampi a generare le storie importanti. Cosa c’è di più ingiusto di una morte autoinferta perché la vita ogni tanto si fa crudele? Questo è stato l’incipit, ma ho voluto raccontare l’amore. Quello di chi è sopravvissuto e quello di chi non capisce. Poi ho provato anche a fare una cosa che non avrei voluto fare: prendere contatto con la morte. La morte è un elemento strategicamente importantissimo. Mi interessa la visione di qualcuno che antepone la morte a quello che viene considerato il bene più prezioso, e cioè la vita. Solo che ogni tanto cessa di essere preziosa, fino a cessare essa stessa. Perché dobbiamo nascondere la morte? Abbiamo bisogno di un’educazione all’addio».
I fallimenti presunti e percepiti
È dolorosa la storia di Giacomo, perché il ritratto che emerge da queste prime puntate del podcast è quello di un ragazzo estremamente empatico. Forse troppo fragile per i tempi che corrono. «Ho promesso di raccontare anche i suoi fallimenti. – ci spiega Niccolò Agliardi – Che poi, se li guardi da un altro punto di vista, sono solo fallimenti presunti e percepiti. Costellano la vita di ognuno di noi, perché una sfida ha in sé due componenti: la vittoria e la sconfitta. Solo che la sconfitta non è una perdita inesorabile. Ogni giorno vinciamo e falliamo in qualcosa. Il peccato originale della storia di Giacomo è che non ha avuto il tempo di accogliere i propri fallimenti. In lui, il Super-Io che domina le nostre coscienze era più forte dell’Io. Nel nostro mondo è l’opposto. Il nostro ego è gigantesco e ingombrante, occupa le timeline di ogni account Instagram, i titoli dei giornali. Giacomo, se mi posso permettere, era il più sano di tutti. Non aveva voglia di mostrare solo la sua parte luccicante. O avrebbe voluto, ma non sapeva come fare. In un momento di repentina implosione ha detto Basta».
«Io credo – prosegue Agliardi – che questa storia debba aiutare tutti a tenere i fallimenti per buoni, come qualunque altro elemento. Perché fanno parte di noi. Oggi si tende a parlarsi addosso, abbiamo un tempo di ascolto per gli altri che equivale allo scroll di una storia di Instagram. È un po’ poco. Giacomo, senza voler fare una statuetta, si interessava molto agli altri. Non riceveva però la stessa moneta in cambio».
Niccolò Agliardi e il valore del medium podcast
L’esigenza di raccontare la storia di Giacomo ha portato Niccolò Agliardi anche a sperimentare il medium podcast, di cui si dichiara apertamente «un neofita». «Ho sempre ascoltato i miei maestri, da Pablo Trincia a Nicola Lagioia, ma sono un fruitore laico. – ci dice – Questa storia però andava raccontata attraverso tante voci, non volevo ascoltare solo la mia. Così ho fatto il secchione, ho studiato e mi sono circondato di numeri 1. Non per presunzione, ma per opportunismo. Mi piace tantissimo imparare e vedere quelli bravi come fanno». Qui la menzione d’obbligo va a Tommaso Ruggeri, che del podcast ha curato le musiche: «L’ho conosciuto a 18 anni e l’ho messo a suonare la batteria in una band. – ricorda Niccolò – Non aveva mai fatto podcast, ma ha fatto questo lavoro così bene che tutti mi chiedono chi abbia composto questa colonna sonora clamorosa. Siamo stati secchioni. Ho dedicato 19 mesi a questa storia, tutti i giorni, senza nemmeno sapere cosa sarebbe stato. Come puntare un numero su una roulette dove non hai mai giocato e di cui non hai statistiche né intuizioni».
E invece non solo i risultati parlano chiaro, ma Niccolò Agliardi ci confessa che porterà con sé – da questa esperienza – l’amicizia con Tommaso, fratello di Giacomo: «È una persona meravigliosa nella gestione di tutto, dalla serietà all’allegria passando per il metodo. Mi piace molto, è una persona seria e responsabile. Questo podcast mi ha confermato che negli anni ho scelto persone giuste accanto a me ed è un grandissimo regalo, perché dormo sereno e protetto».