Venerdì 6 dicembre è uscito Slide, il nuovo tape di Fudasca: il songwriter e producer romano si ricongiunge dunque con la Corea del Sud in questa collaborazione con Ted Park e Kino. Un sodalizio ormai solido, forte soprattutto della collaborazione con Jay B che ha spalancato a Fudasca non poche porte. Il sound del producer si caratterizza del resto per il talento nel contaminare ispirazioni provenienti da ogni parte del mondo. Tra queste, anche l’Italia: a settembre è uscito infatti il singolo Immagina con Tredici Pietro, Francesca Michielin e Mecna.
La nostra intervista a Fudasca: Slide con Kino e Ted Park, la Corea del Sud e la musica italiana
Partirei da Slide. Hai un legame molto forte con la Corea del Sud, ma come nasce questo sodalizio?
«È nato tutto dall’album che ho pubblicato nel 2020. Di quell’album è andato virale in Corea un pezzo che era what a nice day to run away. Il pubblico coreano si è affezionato. Ricordo che a Capodanno 2021 mi scrisse Jay B. Pensavo fosse un fake, sai uno di quei profili finti. Invece era proprio lui, mi ha detto Dobbiamo fare un pezzo insieme su ‘sta vibe. Quando in Corea collabori con Jay B, lui si tira dietro anche altre cose. Tutti hanno, come si dice a Roma, drizzato le orecchie. Ho stretto un po’ di legami e sono pure andato di persona in Corea del Sud a ottobre del 2023».
In quell’occasione ti sei esibito, giusto?
«Sì, sono stato a Seoul. Ho avuto l’occasione di conosce KINO e Jay B di persona. Ho conosciuto Junny, con cui ho fatto un pezzo a giugno, e c‘era anche Ted Park. Si è consolidato questo sodalizio e, quando sono andato quest’anno a Los Angeles, ho colto l’occasione per unire le cose. Slide è un inno: unisce America, Corea del Sud e c’è anche un po’ di influenza brasiliana».
A questo proposito, tu hai la capacità di creare nuovi mondi musicali. Quanto ti viene naturale e quanto è complicato?
«Più che essere un processo naturale, direi che a me piace. Mi son sempre chiesto Perché non farlo?. Non sempre è stata una cosa che ha giocato a mio favore, perché appunto certe volte non è ben visto il cambiamento di stile o la pratica di mischiare le cose. Alle persone piace la sicurezza di ascoltare qualcosa di familiare. Io cerco di metterci sempre quella familiarità, ma mi piace pensare di poter sperimentare con quello che abbiamo a disposizione nel mondo. E mischiare culture e stili».
Con l’italiano l’approccio cambia?
«È un mix. A volte faccio la strumentale e penso Qui ci potrebbe star bene Mecna o Pietro. Altre volte magari sono in sessione con un artista e creiamo insieme un brano su misura. Però, in generale, cerco sempre – che si tratti di una base o di un lavoro più sartoriale – la naturalezza. Faccio molta attenzione al valore culturale di quello che sto creando. Soprattutto se è qualcosa di italiano, perché so bene come funziona la cultura Italiana, cerco sempre di mischiare con rispetto di quello che mi circonda e dell’artista con cui lavoro. Credo e spero sia ciò che premi questo tipo di collaborazione».
In Italia c’è una grandissima attenzione al testo.
«È culturale. Per esempio, in altre lingue, certe parole se le traduci in italiano non appartengono alla nostra cultura. Il pubblico storce il naso. In realtà sul testo, soprattutto in Italia, cerco di non mettere troppo bocca perché spesso qui chi canta scrive. C’è proprio la cultura della scrittura e del bel testo. Faccio attenzione e costruisco la strumentale in base a quello che puoi dire e a come lo puoi dire. Cambia tanto dall’inglese allo spagnolo, o dal portoghese all’italiano».
Come scegli invece gli artisti con cui collaborare? Alcuni ritornano spesso nei tuoi brani.
«Pietro oramai è un fratellino, abbiamo lavorato al suo disco. Con Corrado o Guglielmo è la stessa cosa. L’approccio italiano alla musica prevede anche che, alla fine della sessione, ti vai a fare una birra».
Beh, siamo proprio noi.
«Cose che non ti puoi permettere a Los Angeles o a Seoul».
Infatti è sempre bello tornare a casa. A questo proposito, in merito agli artisti italiani, contatti mai qualcuno che secondo te è perfetto per un tuo pezzo?
«Quasi sempre è così, poi si può allargare il cerchio. A volte provo a far sperimentare gli artisti, anche se so che sulla carta non ci fittano su una roba. Magari però ci ho sentito una cosa che rientra nelle loro corde. Provo a proporla, ma non sempre mi viene detto di sì. Soprattutto a primo impatto, magari sentono la strumentale, e non la reputano adatta».
Si sentono fuori dalla loro comfort zone?
«Esatto. Purtroppo o per fortuna, il produttore è anche psicologo. Devi fare anche un lavoro umano, proporre le cose in modo giusto e onesto. Nello stesso tempo, devono essere cose fresche e fighe. Di solito propongo le cose giuste per la persona giusta. Però certe volte sto lì e penso So che magari non c’entra tanto però, su una cosa del genere, se riesce a farla sua ci potrebbe stare. Dipende dal momento».
E Fudasca ha una comfort zone?
«Mi sento nudo (ride, ndr). Qualsiasi cosa faccio, tendo sempre a qualcosa di organico e suonato. Una chitarra o una texture umana: sento che quello è il mio salvagente, la cosa che mi fa sentire al sicuro. Non mi vedo bene a produrre cose hardcore o techno hard».
Ti piace il suono puro?
«Voglio sentire comunque l’errore umano in qualche modo. Voglio sentire la corda che si perde un attimo o l’acciaccatura del piano che non va bene in un punto, però la lasci lì. Sono quelle cose che mi comunicano qualcosa».
Però poi, nelle coniugazioni del tuo sound, non ti dai molti paletti.
«È vero, ci provo almeno».
C’è un sound particolare che ti ispira in questo periodo?
«Ultimamente mi piace un botto l’approccio nuovo all’hip hop vecchio. Mi viene in mente Westside Gunn. Lui ha un approccio old school con strumentali prese da campioni vecchissimi. Oppure pesca ballate soul anni ’60 così e ci va sopra in modo super moderno, certe volte anche provocatoriamente alto. A me quella dissonanza fa volare. Mi piace molto ritornare un po’ a quell’hip hop, cercando da produttore di ricampionarlo in modo più 2024, quasi 2025».
C’è una recente ondata di rinnovamento dell’hip-hop degli esordi.
«È la cultura hip hop approcciata dalle nuovissime generazioni. In Italia penso a Promessa. C’è tanta voglia di riportare una sorta di verità, che in molte cose non c’è».
E nel futuro cosa c’è?
«Il prossimo anno vorrei chiudere il disco da produttore, ma non è facile. È comunque un bel viaggio della speranza, devi fare le combo e capire chi ci può stare. Speriamo di sentirci presto».