L’attrice e regista racconta come passione, curiosità e coraggio siano il più potente farmaco
per affrontare la malattia: un ‘vaccino’ di speranza al tempo del coronavirus
Una vita dedicata alla passione per il teatro e alla voglia di conoscere sempre qualcosa di nuovo con lo studio e la ricerca. Un’esistenza in cui l’impegno per quello in cui credi ti dà la forza di reagire e andare avanti. La forza di sorridere e quella di convivere con qualsiasi difficoltà, persino con una malattia come la poliomelite. Tutto questo e molto altro caratterizza la poliedrica esistenza e la brillante carriera di Mila Moretti, figlia d’arte – suo padre, Mario Moretti, è stato un grande drammaturgo fondatore, a Roma, dell’Accademia del Teatro dell’Orologio – traduttrice e attrice di successo, musa italiana del celebre drammaturgo spagnolo Fernando Arrabal, ma anche regista che ha prestato la sua professionalità all’insegnamento fondando, nel 1994, insieme a Martino Edoardo Convertino, il laboratorio teatrale ‘TeatroO2’. Insomma, Fernando Arrabal, Bruno Cortini, Sergio Aguirre, Lorenzo Minnelli, Avon Stuart, Pierre Laplace, Michel Lopez e Nino Campisi sono solo alcuni dei registi e degli autori per i quali ha lavorato e che hanno concorso all’affermazione della sua più matura espressività: quel timbro vocale e quella presenza scenica tutta sua, che si farà presto apprezzare nei principali palcoscenici d’Italia. Ma la tenacia e la passione della Moretti non si riversano solo nella capacità di mettersi in gioco – sempre e comunque – nel teatro come nella vita, ma anche nella tensione continua al confronto e all’innovazione, soprattutto per ciò che riguarda l’impiego di nuove metodologie e tecniche di sperimentazione, come quelle che lavorano sulla dimensione onirica dell’improvvisazione. Anche durante la pandemia, il suo lavoro non si è fermato: anche se non si può ancora andare a teatro, l’attrice lavora a nuovi progetti da remoto, per portare un po’ d’arte e di energia, a casa di tutti. In questo particolare momento storico, la forza di Mila Moretti è un invito alla speranza e alla vita.
Mila Moretti, quando e come ha scoperto il teatro? E quando ha desiderato per la prima volta di fare l’attrice?
“Ho scoperto il teatro a 30 anni. Prima di allora, niente. Al contrario, vedevo il teatro come un nemico, perché mi aveva portato via mio padre: sentivo che lui amava la sua professione di drammaturgo più della sua famiglia. In seguito, per fare la doppiatrice, ho dovuto partecipare a un laboratorio teatrale e fu allora che, grazie al mio insegnante, Francesco Burroni, sono diventata attrice. Da quel momento, ho preso lezioni su lezioni e ho cominciato a lavorare. Dopo un anno di studio sono stata chiamata da una compagnia per lo spettacolo: ‘Cinemattograffia’. E, da allora, non mi sono più fermata. Mi sono diplomata al laboratorio ‘Nove’ di Firenze, la Scuola d’arte drammatica. E ho scelto di tradurre la ‘Medea’ dallo svedese, nel monologo di Mia Törnqvist, che è stato messo in scena dal regista argentino Sergio Aguirre: è stato solo l’inizio”.
Cosa le ha dato e cosa, invece, le ha sottratto la sua malattia, in particolare nella sua professione?
“Il fatto di non essere scelta, ma di scegliere quello che più andava bene per me; considerare il limite come una cosa speciale rispetto agli altri; la capacità di autocritica che ho saputo sviluppare nel corso degli anni: non ho nessuna pietà per Mila Moretti…”.
Sono tanti i registi e gli autori con i quali ha lavorato: c’è qualcuno che reputa più importante per la sua formazione? E se sì, perché?
“Tutti sono stati importanti. In particolare, il mio primo insegnante, Francesco Burroni, che mi ha portata al teatro; il regista Sergio Aguirre; il drammaturgo, di fama mondiale, Fernando Arrabal, che mi ha scelta come sua musa in Italia per i suoi monologhi”.
Quando e come si è trasformata da allieva in maestra? Può spiegarci questo passaggio?
“Dopo dieci anni in cui ho seguito altri docenti che ritenevo in gamba, Francesco Burroni ha deciso, un po’ a sorpresa, di mettermi alla prova facendomi insegnare. Ho scoperto di essere una brava insegnante e ho fatto nascere tanti attori oggi famosi, come per esempio Francesca Inaudi, che con mio grande disappunto non mi ha mai ‘citata’ una volta arrivata al successo”.
Come vive questo periodo di emergenza sanitaria in cui tutto è fermo, soprattutto nel settore degli spettacoli?
“Lo vivo molto male per il teatro, perché penso che stiano sottraendo un pezzo di arte, di ‘aria’ e di economia all’Italia: il teatro produce molto. E quello che ora viviamo è una grave perdita. Personalmente, tuttavia, vivo questa fase anche come un momento di osservazione e di scrittura: osservo il mondo da una finestra, cerco di cogliere tutto quello che prima non vedevo, anche con una luce diversa. Sto anche recuperando vecchie amicizie: oggi capisco che la vita non è così lunga”.
In che modo la cultura e la passione l’hanno aiutata nella malattia e come la aiutano, oggi, ad affrontare l’emergenza sanitaria?
“Più che altro, è la curiosità di scoprire cosa si può fare con un limite, cosa può esprimere il mio corpo convivendo con la malattia. Il mio sogno è quello di creare una coreografia con persone sulla sedia a rotelle, per farle danzare insieme a ballerini professionisti. Portare tutto il mondo seduto e vedere cosa si può far emergere con l’artificio del teatro e la magia della musica, che muove tutti i corpi…”.
Quali sono i suoi prossimi progetti in cantiere?
“Il prossimo progetto è il mio monologo su Ilaria Alpi, dal titolo ‘Faceva caldo’, interpretato da Manola Nifosì: un’attrice fiorentina di grande talento che dirigo. Oltre a ciò, sto finendo di scrivere il monologo su Lucia Joyce, la figlia di James Joyce, danzatrice tenuta segreta e morta in manicomio. Il monologo, da me scritto e diretto, sarà interpretato dall’attrice e danzatrice Gabriela Corini, con le musiche dell’Accademia della danza di Roma, composte da Morena Malaguti. Sto finendo anche di scrivere un adattamento di ‘Lessico famigliare’ di Natalia Ginzburg: una versione per due attrici, la mamma, Lidia Levi e Natalina, la cameriera. Quest’opera sarà interpretata da Alessandra Fraboni e da una cameriera ‘en travestie’, quindi da un uomo. Dulcis in fundo, debutterò a Bologna, al Teatro del Navile – Covid 19 permettendo – con il monologo scritto per me da Fernando Arrabal dal titolo ‘Juliette’, tutto imperniato sull’incontro di Juliette Greco con lo stesso Arrabal”.
Quale messaggio si sente di voler dare ai giovani, alla luce della sua esperienza artistica?
“Lo studio è la prima cosa: se non studi, non sei nessuno. Studiare il passato come prima cosa e poi, eventualmente, arrivare a Samuel Beckett e non viceversa, partendo subito da Beckett. Poi, la tenacia di voler fare questo mestiere non per essere visti, ma per agire. Scoprire il proprio talento e farlo fruttare”.