Intervista a un talento autentico del panorama artistico romano alla vigilia del suo nuovo tour 2025 in cui porterà in tutta Italia il divertentissimo monologo ‘Brutta’, tratto dall’omonimo libro di Giulia Blasi edito da Rizzoli

Foto di Laura Sbarbori

Cristiana Vaccaro è un’attrice in continuo movimento tra cinema, teatro e televisione. Diplomata all’Accademia nazionle di arte drammatica ‘Silvio D’Amico’, di recente ha svolto il ruolo di direttrice artistica per la rassegna teatrale ‘PerFormazione Sociale’, imperniata su temi come l’inclusione e l’integrazione culturale. Co-fondatrice, insieme a Michele Riondino e Massimiliano Davoli, della scuola d’arte Accademia Bordeaux, dove insegna recitazione. Noi l’abbiamo incontrata qualche tempo fa al Castello di Brescia (Il Falcone d’Italia), dov’era in scena con il monologo ‘Brutta, storia di un corpo come tanti’: un suo riadattamento tratto dall’omonimo best seller di Giulia Blasi, edito da Rizzoli, per la regia di Francesco Zecca. Oltre alle date bresciane, il suo tour ha già toccato molte città italiane e si è concluso con una ‘serata-evento’ al Teatro Carcano di Milano.

Foto di Luca Stendardi

Cristiana Vaccaro, a noi è sembrato che il pubblico abbia risposto positivamente a questo tuo nuovo monologo dal titolo ‘Brutta’: sei soddisfatta?

“Sì, il pubblico ride e si commuove: non c’è soddisfazione più grande per me. La scorsa stagione è andata molto bene e, infatti, riprenderemo il tour anche nel 2025, passando finalmente anche da Roma, dove saremo in scena dal 6 al 9 marzo 2025 al Teatro Spazio Diamante”.

Puoi dirci qualcosa in più su questo tuo spettacolo?

“In scena sono sola su una cyclette e pedalo quasi senza sosta. A volte, sono in corsa; altre, vado a ritmo di musica anni ’80; ogni tanto, mi fermo a ripercorrere gli avvenimenti più importanti: i ricordi, quelli che in qualche modo contribuiscono a costruire la percezione che abbiamo di noi stesse. La ‘cifra’ è ironica: si parla di ‘un corpo come tanti’, proprio perché è un tema che riguarda tutte noi donne. La percezione del nostro corpo, purtroppo, dipende molto dallo sguardo degli altri e da alcune dinamiche sociali. È uno spettacolo che parla anche di un percorso di accettazione”.

Ma tu ti piaci, solitamente?

“Sono sempre stata molto severa con me stessa, ma ci sto lavorando. Sto imparando a volermi bene e ad accettarmi per come sono, sia dentro che fuori. Quando devi cambiare rotta, dopo tanti anni in cui ti sei sentita sbagliata, la strada è lunga e articolata, ma ora direi che sto vivendo una fase di trasformazione. La crisi è sempre una grande opportunità di cambiamento”.

Foto di Laura Sbarbori

C’è anche uno spazio dedicato al pubblico: come mai questa scelta?

“Dopo lo spettacolo c’è un breve ‘talk’, dove io e Giulia incontriamo il pubblico. Inizialmente, l’idea mi spaventava, perché credo che un qualsiasi atto creativo come uno spettacolo debba sollevare delle domande, non dare delle risposte. Invece, si è rivelato un bel momento di condivisione: alcune ragazze ci hanno detto di essersi riconosciute e, per questo, si sono sentite comprese, persino meno sole. Gli uomini ci parlano di esperienze analoghe e, in alcuni casi, avviene una presa di coscienza in merito a questioni che prima non ritenevano così importanti. Questo Q&A (domande e risposte, ndr) pensato da Giulia aggiunge, devo dire, una ‘chiave’ in più all’esperienza dello spettacolo”.

Come hai riadattato il testo rispetto al libro?

“Sono partita, intanto, da una scelta dei brani più adatti alla messa in scena; poi, sono intervenuta, più che altro, sulla prima parte, che è quella più autobiografica, cercando di adattare il testo alla mia esperienza di vita partendo dai luoghi: dal Friuli, dove è nata Giulia, la mia protagonista si sposta in Calabria, dove sono nata io e cresce a Roma, dove i miei genitori si erano trasferiti già vent’anni prima. Insomma, cambiano le location, i modi di dire, le abitudini e le convenzioni, ma la storia è sempre la stessa”.

A quale storia ti riferisci e qual è il tema di fondo che trattate in scena?

“Mi riferisco alla storia della protagonista, dalla nascita all’età adulta, tra vari aneddoti, alcuni più divertenti, altri più tristi. Ci s’interroga, fondamentalmente, sul perché noi donne passiamo tutta la vita a cercare di tenerci alla larga dall’essere etichettate come ‘brutte’. E perché il nostro aspetto fisico arrivi sempre prima di tutto il resto. ‘Bella’ o ‘brutta’, c’è sempre qualcuno che si sente in diritto di giudicare. Soprattutto, c’è sempre qualcosa da dire, un commento da fare o qualcosa che non va: troppo grassa, troppo magra, troppo nuda, troppo casta, troppo brutta, parla troppo e così via”.

Stai dicendo che la società impone un ideale estetico unico, totalmente vuoto?

“La società ci condiziona senza che ce ne accorgiamo. Ti dice che la bellezza non è un valore, però se non hai cura di te esteticamente vuol dire che non ti vuoi bene. La pressione arriva da tutte le parti e, il più delle volte, ti fa sentire inadeguata. In scena, mi chiedo: “Non sarà che la parola ‘brutta’ e tutte le sue varianti sono un modo per rimettere la donna al suo posto, per ridurla a una cosa, un oggetto, a un frutto’? Ci sono anche gli ‘schemini’, con il corpicino di donna sovrapposto a una forma che, di solito è un frutto o un vegetale: la donna-pera, le spalle strette e i fianchi larghi”.

Un’attrice dev’essere per forza bella? E’ questo il problema che restringe molte opportunità in campo artistico?

“Non sempre un’attrice dev’essere bella, ma sicuramente non può invecchiare: dopo i 40 anni, ti fanno fare solo la mamma, a volte già la nonna. Il problema è che ci sono ancora troppi più ruoli maschili, ma sono fiduciosa che le cose cambieranno”.

Foto di Fabio Mantegna

Lilli Gruber ritiene che uno dei problemi con cui le donne hanno a che fare sia la ‘subcultura’ pornografica, a cui il web sembra aver dato una sorta di via libera o di ‘semaforo verde’: tu cosa ne pensi?

“Se vediamo il porno come unico canale informativo per i ragazzi e le ragazze, è un bel ‘casino’. Per questo motivo, credo che, oltre che in famiglia, bisognerebbe parlare di certi aspetti a scuola, inserendo materie come l’educazione sentimentale per educare al consenso, a un modo di pensare più consapevole, più informato e più inclusivo. Sarebbe anche ora”.

Negli anni del ‘boom’ economico, si era passati, a parte alcuni retaggi che sopravvivono ancora oggi, dal patriarcato alla famiglia mononucleare, caratterizzata da una precisa divisione di compiti e ruoli tra uomini e donne: è giusto, oggi, rispolverare la parola ‘patriarcato’? Non radicalizza il confronto?

“Io, quando ero piccola, dicevo di chiamarmi Federico. Così, per protesta. Forse, avevo già intuito che da ‘maschio’ sarei stata più libera di fare ciò che volevo. Penso che la parola ‘patriarcato’, a qualcuno possa dare fastidio solo perché si finge che sia un problema ormai superato mentre, invece, è ancora pericolosamente radicato nel nostro modello culturale. L’obiettivo non deve essere quello di radicalizzare o conflittualizzare il confronto, ma di trasformare davvero il modo di pensare e di agire, in modo che tutte e tutti possano sentirsi più liberi e accettati”.

Foto di Luca Stendardi

Hai anche finito di girare un film con Daniele Vicari: ce ne vuoi parlare? Com’è andata?

“Sì, abbiamo finito da poco le riprese ed è stata un’esperienza della quale sono molto grata. Nei confronti di Daniele Vicari in primis: regista di rara sensibilità, che mi ha scelta per interpretare la madre di Antonio Zagari, uno dei primi collaboratori di giustizia della ‘ndrangheta calabrese e autore del libro ‘Ammazzare stanca’, da cui è tratto il film. E sono grata anche del bel rapporto e degli stimoli creativi nati durante la lavorazione del film con tutto il cast, che è davvero ‘spaziale’. Preparatevi, io vi ho avvisato”!

Intervista di Vittorio Lussana

Foto di apertura Fabio Mantegna