Durante lo scorso week end si è tenuto nel borgo delle antiche regine del Parco nazionale d’Abruzzo, il Ju Buk Festival: una bella rassegna letteraria di autrici, con scrittrici esordienti e pluripremiate, politiche e attiviste, economiste e giornaliste
Alla IV edizione del ‘Ju Buk Festival’, tenutosi dal 26 al 28 luglio 2024 in quel di Scanno (Aq), si è discusso di forza e fragilità, guerra e pace, corpi e scelte, memoria e futuro. Nella visione del mondo, libera e inclusiva, della sua ideatrice: la giornalista e scrittrice di origini abruzzesi, Eleonora de Nardis Giansante.
Eleonora, come nasce questo suo legame con la terra d’Abruzzo?
“Il mio bisnonno paterno, Camillo de Nardis, noto musicista, classe 1857, era di Orsogna, nel Teatino (Chieti). E i miei nonni materni erano anch’essi abruzzesi. I miei genitori si sono conosciuti a 16 e 19 anni in villeggiatura proprio a Scanno, dove poi ho trascorso le eterne estati d’infanzia della mia vita tra racconti, gesti antichi, tradizioni, processioni religiose, riti pagani, canti, falò, greggi, lago e boschi. Un luogo che grida forte dentro di me e mi chiama a sé più volte, durante l’anno. Soprattutto, quando mi ritrovo nel caos degli orari cittadini ‘incastrati’ e mi manca l’ossigeno dei miei monti”.
Perché il ‘Ju Buk Festival’ nasce proprio a Scanno?
“Perché Ju Buk, in dialetto ‘scannese’, è la bisaccia del pastore, che veniva riempita di viveri durante la traversata della transumanza verso le Puglie. Proprio durante quei lunghi mesi invernali, le donne rimanevano da sole a Scanno: borgo incastonato tra i monti raggiungibile solo superando l’ampio e stordente squarcio di gole montane di pietra liscissima e aguzza, che accompagnano il corso del fiume Sagittario. Su quelle donne – madri, figlie e sorelle – gravava tutto il peso economico e sociale della vita del paese: andavano a fare la legna; a raccogliere le erbe di alto stazzo; a trebbiare e a prendere l’acqua al ruscello. Oltre al lavoro domestico e di cura dei figli: dall’arte del ricamo al tombolo, alla preparazione di ricette povere, ma squisite. Tutto questo, nel loro caratteristico costume: un pesante gonnellone a pieghe di lana cotta, color verde-bosco; un grembiule; il copricapo a foulard che, a seconda del colore, indicava il loro stato civile e i gesti enfatici di chi tiene la testa alta e parla con gli occhi. Il costume nuziale e dei giorni i festa – nero, come tradizione orientale vuole, visto che le origini si suppongono saracene – è invece composto da un ricco grembiule di seta ricamato. Molti tessuti provenivano dalle ricamatrici di Santa Maria di Leuca (Le) e venivano portati in dono proprio dai mariti pastori: un corpetto ingioiellato (antichissima è l’arte della filigrana orafa scannese) e il copricapo, simile a un fez, ornato di trecce colorate e raccolte sulla nuca: una vera e propria tiara regale. Da poco, l’abito muliebre, grazie all’associazione ‘Fasti’, ha iniziato il percorso per il riconoscimento Unesco a patrimonio immateriale dell’umanità”.
Cosa ricorda delle donne abruzzesi di un tempo?
“Quando ero bambina, restavo incantata dalla bellezza e dalla forza di queste donne, capaci di tramandare, ma anche di portare avanti delle rivoluzioni culturali in quel luogo, che rappresenta una più unica che rara ‘enclave’ di cultura matriarcale del nostro sud. Ecco perché la kermesse ‘Ju Buk Festival’, portatrice delle istanze delle donne per la società tutta, non poteva che vedere la luce a Scanno”.
Non solo letteratura, dunque: qual è la ‘mission’ di questo festival?
“Assistiamo, spesso inermi, a un consolidato sistema di potere patriarcale, che sa riprodurre solo se stesso e che permea tutta l’informazione: dai drammatici effetti socio-economici dei conflitti, al reflusso politico mondiale; dalle represse rivoluzioni delle donne, alla rotta migratoria mediterranea, in cui a perdere la vita sono i più fragili del pianeta. E ancora, molti temi sono, da secoli, considerati tabù: il corpo femminile; la maternità come libera scelta; il potere dei soldi; la malattia; il lavoro delle donne e la loro sessualità. Promosso dall’associazione ‘FactoryA’ – network di informazione per contribuire a rendere più visibili le realtà femministe, ecopolitiche, antirazziste e anticapitaliste e per sostenere l’eliminazione degli stereotipi nelle relazioni affettive, sui corpi e la cura – l’intento del ‘Ju Buk Festival’ è ambizioso: fare cultura in un’ottica femminista. Capovolgere le narrazioni degli eventi può rappresentare, in questa fase storica, un sostegno alla conoscenza necessaria ad attivare una riconversione sociale e ambientale su presupposti radicalmente opposti al modello dominante rilanciato dal mainstream e che, ancora oggi, permea ogni ambito della nostra vita sociale, nonostante ci abbia portato a conseguenze devastanti per il Paese: dall’inverno demografico, all’inoccupazione delle donne, fino ai numeri sconcertanti della violenza di genere. La letteratura delle donne rappresenta una preziosa opportunità di riflessione e progettualità: una pratica critica che dovrebbero considerare anche e soprattutto le istituzioni, per giungere a un nuovo patto sociale realmente equo e condiviso, basato, su cardini più forti e robusti, i quali, in tal senso, potrebbero davvero salvare il mondo”.
Cosa ha proposto di interessante questa IV edizione?
“La prima giornata è stata dedicata agli ultimi ‘Esordi’ di successo, con Monica Acito e il suo acclamato ‘Uvaspina’ (Bompiani 2023) e Raffaella Simoncini che affronta il tema della malattia in ‘Bulky’, della casa editrice abruzzese Neo: un interessante esempio di editoria indipendente che, anche quest’anno, ha fatto ‘capolino’ al Premio Strega. Pagine in grado di rammendare strappi sociali, rovesciare rappresentazioni, abbattere pregiudizi, costruire ponti tra culture e scrivere nuove grammatiche di rapporti tra i generi. La seconda giornata, intitolata ‘Corpo’, è stata aperta dall’economista femminista Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics di ‘Unitelma-La Sapienza’: dopo il bestseller ‘Le signore non parlano di soldi’, quest’autrice ha voluto insistere nella sua opera di empowerment femminile con ‘Come chiedere l’aumento’ (Fabbri, 2024). Poi si è proseguito con ‘La donna che odiava i corsetti’ di Eleonora D’Errico: una biografia di Rosa Genoni che ha visto l’autrice in dialogo con Michela Bonafoni, studiosa di moda e costume, docente allo Ied di Milano e si è terminato con il suggestivo saggio ‘A questo serve il corpo’ (Bompiani 2023), della firma culturale del Corriere della Sera, Roberta Scorranese. Un saggio che ripercorre l’evoluzione dell’immagine della donna nell’arte, a partire da un celebre verso della poeta, Patrizia Cavalli. Il sabato sera abbiamo anche presentato, in anteprima nazionale, il reading: ‘Sei troppo figa!’, scritto dalla drammaturga Antonella Questa e interpretato dall’attrice e attivista Valentina Melis, reduci entrambe dal grande successo del tour della piéce di ‘Stai zitta!’, tratto dal bestseller di Michela Murgia. Infine, nella giornata conclusiva, dal titolo ‘Scelte’, abbiamo portato sul palco le firme de IlSole24Ore, Monica D’Ascenzo e Manuela Perrone, con il loro ultimo lavoro ‘Mamme d’Italia’, con l’intervento della politicaMarta Bonafoni ele giornaliste del gruppo ‘Lost in Europe’, Cecilia Ferrara e Angela Gennaro, le quali, a loro volta, hanno presentato i loro lavori: ‘Perdersi in Europa senza famiglia’ e ‘Storie di minori migranti’ (AltraEconomia 2023). Il festival si è chiuso con la narrativa: alla domenica sera, è salito sul palco il romanzo ‘La piccinina’ di Silvia Montemurro (e/o edizioni, 2023): un’opera che racconta la storia dei primi movimenti femminili operai, nel segno di quel ‘tracciato della Memoria’ che ci è necessario per poter ricordare chi siamo e per guardare al futuro, affinché la letteratura delle donne non resti solo inchiostro su carta, ma possa realmente fare da volano a un cambiamento sociale e culturale e alla sempre più urgente scrittura di una nuova grammatica dei rapporti tra i generi”.
Intervista di Vittorio Lussana