Per i venti anni del Palladium, intervista con Luca Aversano direttore delle Fondazione Roma Tre Teatro Palladium
Il Teatro Palladium, a Roma, da venti anni lavora tenendo in relazione mondo universitario, mondo dello spettacolo e il territorio della Garbatella, il quartiere popolare romano creato per ospitare gli operai di una zona industriale limitrofa. Luca Aversano, professore ordinario di Musicologia e Storia della Musica all’Università Roma Tre e direttore della La Fondazione Roma Tre Teatro Palladium lo descrive come teatro di relazione. La relazione fra le arti, le discipline, i pensieri e le persone appare come un tratto imprescindibile della produzione e fruizione di cultura nel contemporaneo. La storia dell’arte e la storia del sapere hanno vissuto epoche imperniate sul rapporto e sulla condivisione e, anche se intorno a noi il mondo sembra in balia di una incapacità di abitare la relazione, sembra al contempo alla ricerca di un modo di creare connessioni che riporti l’uomo nel suo ambito più confortevole e nutriente. Il compimento del ventesimo anno di attività del Teatro Palladium (vai all’articolo) è stata l’occasione per riflettere con il direttore Luca Aversano, sul complesso lavoro culturale svolto in questi anni in uno dei più importanti teatri universitari italiani in equilibrio tra formazione e intrattenimento.
Abbiamo chiesto al Direttore Luca Aversano come, Lavorando a stretto contatto con generazioni di studenti sempre nuove, vede cambiare il ruolo dell’arte e la cultura nella vita dei ragazzi?
La sensazione che io percepiscono dalla postazione che occupo sia di docente del DAMS che di responsabile del teatro Palladium è quella che ci sia una forte esigenza di coinvolgimento nelle attività culturali da parte delle nuove generazioni. Una sete mi sembra che ci sia. Qualche decennio fa era scontato che quella sete, chiamiamola così, si potesse soddisfare tramite un certo tipo di frequentazione di spettacoli dal vivo. Oggi, secondo me, i ragazzi invece usufruiscono o comunque consumano i fatti culturali molto di più attraverso i canali digitali. Ho l’impressione che la cultura ha un senso nella sua riverberazione nella dimensione mediale e che non si possa prescindere da questo se si vuole capire la mentalità dei ragazzi di oggi. Quello che sto notando è che il teatro in sé fa fatica ad entrare nella pratica sociale delle giovani generazioni. Si dice spesso che i giovani facciano fatica a vedere la prosa o gli spettacoli di un certo tipo ma a me non sembra sia una questione di gusto, ma di difficoltà a far rientrare quella della frequentazione del teatro nelle partiche sociali condivise, quotidiane. Come si va a bere una birra o in un locale di qualsiasi tipo, così dovrebbe diventare andare a teatro, facendolo entrare nella quotidianità delle giovani generazioni. Il lavoro che facciamo al Palladium è finalizzato proprio a questo: cercare di portare l’esperienza di entrare in un teatro più vicina, renderla più quotidiana, simile non da vivere una tantum, un ritorno periodico così come si fanno altre cose, come andare in palestra ad esempio.
Come si trasformano i giovani spettatori da osservatori passivi a partecipanti attivi?
Il pubblico giovane si forma prima di tutto facendolo partecipare attivamente quindi dimenticando la comunicazione ex cattedra, cioè quella comunicazione da qualcuno che parla a qualcun altro che ascolta. La partecipazione si realizza inglobando il pubblico giovane sia nell’attività di critica che di riflessione sugli spettacoli, inserendolo anche nell’organizzazione degli spettacoli stessi e nella visione della programmazione. L’andare allo spettacolo a teatro deve far parte di un percorso, essere un momento del rapporto con il teatro e non soltanto il risultato di un predicazione didattica che deve convincere che quella cosa è bella. Credo che il “bisogna andare a teatro perché” vale sia un approccio che può giocare un ruolo ma, secondo me, non è il mezzo più efficace.
In un periodo nel quale la cultura sembra ritirarsi dalla vita delle persone, che compito ha un teatro universitario? Che tipo di attività è un teatro universitario?
È un’attività anfibia fra due rive, due sponde: l’accademia, che è un mondo con le sue leggi, le sue norme, i suoi circuiti e il mondo dello spettacolo al quale si aggiunge una terza sponda che è quella rappresentata dal territorio. Lo chiamo teatro di relazione perché è un teatro che riesce a essere l’elemento di connessione tra campi che di solito non dialogano così tanto. Per esempio, il mondo dello spettacolo con il mondo dell’università non ha mai un rapporto veramente diretto e così anche l’università che nel territorio di solito non riesce ad avere un suo radicamento così intenso e profondo. La funzione di un teatro universitario è proprio quella di essere un teatro che parte dall’università come concezione, come sputi culturali, ma che poi si trasforma sulla scena in qualcosa di partecipativo per tutti anche tirando dentro a questo processo gli attori stessi del mondo dello spettacolo, i quali spesso si lasciano coinvolgere volentieri proprio per questa dimensione anche formativa e didattica che hanno i nostri spettacoli. Per questo siamo un po’ differenti dai teatri non universitari, normali, perché per noi fare uno spettacolo non è soltanto fare uno spettacolo, ma si colloca in un progetto di relazioni attraverso una riflessione sui temi e sulle cose che vanno in scena.
Come si finanzia un progetto del genere con una vocazione impegnativa e poco orientata verso una missione commerciale?
La fondazione che gestisce il Palladium è una fondazione 100% partecipata da Roma Tre che eroga a sostegno un contributo annuale. Questo contributo all’inizio della vita della fondazione, quando sono diventato presidente, costituiva il 70, 80% del budget totale del teatro. Col tempo l’Università stessa ci ha spronato a far sì che questo contributo diventasse soltanto la minima parte delle risorse, portando la fondazione a reperire autonomamente altri fondi. Oggi, dopo anni di attività, il contributo di Roma Tre è diventato del 20% circa del totale, il resto entra attraverso un minimo di sbigliettamento, che è sempre una voce piccola nel bilancio dei teatri, attraverso la partecipazione a bandi regionali o ministeriali che vanno sul vari ambitici cui ci occupiamo, come cinema, musica, teatro, danza e iniziative culturali. Facciamo anche un po’ di noleggio della sala e tutte queste diverse attività creano un budget che ci consente di sopravvivere senza andare in rosso tutti gli anni, ed è molto faticoso. Un fundraising molto misto, che metaforicamente ritorna nella stile delle poltrone del teatro che rispecchiano l’anima multiforme e multicolore del Palladium che non fa programmazione con spettacoli che stanno lì sette giorni, ma che ogni giorno ospita qualcosa di diverso, ogni sera cambia pelle. Un giorno cinema, uno teatro, l’altro musica o danza. Per questo anche il pubblico è molto composito, non c’è un pubblico del Palladium, ma ci sono i pubblici del Palladium. Le poltrone di diverso colore l’una dall’altra sono un po’ il segno dello stile delle attività del Palladium.
Venti anni nel presente, come si disegna una programmazione in equilibrio fra la conoscenza del passato e la scoperta del presente in una programmazione?
Credo che la tradizione abbia sempre un sapore di antico, di vecchio, ma bisogna riuscire a raccontare ai giovani che il valore del classico non è quello di essere nel passato, ma di essere nel futuro. Un’opera d’arte è classica nella misura in cui sopravvive al passare del tempo e si proietta nel futuro. La classicità è quel filo rosso che lega chi ci ha preceduto con chi verrà dopo. Bisogna fare in modo che questo filo rosso possa continuare a scorrere e riannodarsi sera per sera nell’esperienza degli spettatori del teatro Palladium. Si tratta di mostrare che il rapporto con la classicità non è con quello che c’è stato, non è quindi uno sguardo indietro, ma sta nella capacità di dialogare con quelli che verranno dopo di noi.
Come sta cambiando la creazione e la fruizione dell’arte nella società delle piattaforme?
La tendenza ad aver bisogno dei dispositivi mediali nel fruire dell’opera d’arte credo sia un movimento generale. Anche andando a teatro spesso si assiste al bisogno di mediazione digitale da parte delle nuove generazioni. In ambito musicale, quello che più mi concerne, vedo che i ragazzi si accontentano di un ascolto della musica poco qualificato dal punto di vista qualitativo ed estetico perché i dispositivi che usano riducono la musica, almeno dal punto di vista del suono, a qualcosa di molto poco coinvolgente. Rispetto a quanto facevano le generazioni precedenti, le quali ascoltavano la musica con attenzione a volte maniacale nei confronti di amplificatori, casse e apparecchi per riprodurla, adesso il suono che ascoltano i giovani è molto omologato e commerciale. Credo che il calo della qualità di ascolto sia il segno peggiore che abbia lasciato la digitalizzazione della musica. I giovani non hanno più il gusto dell’ascolto della musica e se qualcuno li mette in una stanza con un buon impianto, rimangono sorpresi ascoltando il suono come andrebbe ascoltato e non su dispositivi che per motivi di miniaturizzazione non riproducono un adeguato ascolto musicale. Il progresso va avanti, ma bisogna insegnare ai più giovani che c’è anche un altro modo di ascoltare la musica in grado di regalare un’esperienza diversa.
Che idea si è fatto sulla proposta culturale di Roma essendone parte attiva attraverso il Teatro Palladium?
Trovo che Roma sia una città che avrebbe bisogno di un po’ più di attenzione specifica sulle cose. Mi sembra a volte un po’ dispersiva nella vita culturale. Ci sono molte cose, ma si fa fatica a distinguere quali sono quelle di qualità e quali sono quelle a cui si potrebbe rinunciare. Vedo un appiattimento nella fenomenologia e nella trasmissione della vita culturale da parte dei media dove tutto sta sullo stesso piano e non c’è più nessuno che si prende la responsabilità di dire che cosa effettivamente vale e cosa no. C’è questa tendenza alla democratizzazione della cultura, ma non nel senso che si trasmette cultura a un pubblico sempre più vasto, ma nel senso che non esistono più le scale di qualità. Bravi tutti. C’è una corsa a farsi vedere cercando di promuovere le proprie cose e la programmazione culturale di valore non sempre viene tenuta nel giusto conto. La critica ha sempre meno spazio e sempre meno competenza. Non c’è più nessuno che indirizza, che dice cosa vale e cosa non vale e perché. Per farlo ci vuole uno spazio e una funzione che non esistono quasi più. Così si va in contro al todos caballeros che è il risultato finale di questo processo nel quale si innesta anche l’autopromozione sui social. Lo scadimento medio del livello culturale si avverte a tutti i livelli, anche nell’arte e in questo ha un ruolo il mondo della formazione; quindi, dobbiamo prenderci anche noi una parte di responsabilità.