Quando lo vide giocare contro il suo Milan, il 17 dicembre 1989 a Tokyo nella Coppa Intercontinentale, Arrigo Sacchi si innamorò all’istante di quel ragazzo alto e smilzo, capace a soli 22 anni di tenere testa a van Basten e Massaro. Tanto che segnò in rosso sul suo taccuino il nome di Andrés Escobar Saldarriaga, perno difensivo dell’Atlético Nacional di Medellin. I rossoneri, nel frattempo passati sotto la guida di Fabio Capello, stanno per prenderlo nell’estate del 1994: vorrebbero chiudere prima dei Mondiali, perché temono che le prestazioni del numero 2 della Colombia possano far saliare la sua quotazione in maniera vertiginosa, ma non riescono a trovare l’accordo e decidono di rinviare il tutto a luglio.
Ma l’affare non andrà mai in porto, perché il 2 luglio del 1994 Andrés Escobar viene freddato da una scarica di mitragliatrice nel parcheggio di un locale di Medellin, il “Padua”. Stando alle testimonianze, il suo assassino, prima di sparargli dice qualcosa come: «Grazie per l’autogol».
L’unica colpa del calciatore è quella di aver fatto una scivolata di troppo al Rose Bowl di Pasadena. Una scivolata che costa cara alla nazionale colombiana e ancor di più a lui. E l’eccezionale squadra dei Cafeteros, che molti davano tra le favorite per la vittoria del Mondiale statunitense, torna a casa dopo sole tre partite. E pensare che giusto pochi mesi prima Escobar e compagni hanno stracciato l’Argentina al Monumental di Buenos Aires.
Albiceleste travolta
Il 5 settembre 1993 la Colombia fa visita all’Argentina, da sei anni imbattuta in casa. Un successo garantirebbe ai Cafeteros allenati da Francisco Maturana l’accesso alla Coppa del Mondo. I colombiani, fin dal loro arrivo, vengono minacciati dai tifosi locali: «Non vi azzardate a vincere!», è la versione edulcorata del messaggio. Il Ct, una volta negli spogliatoi, tranquillizza i suoi: «Giocate come sapete: non ho altro da dirvi». Non c’è bisogno di altre parole, in effetti: Escobar non c’è perché squalificato, ma sul Monumental si abbatte una specie di uragano calcistico che travolge Simeone, Redondo e compagni. Rincón apre le danze poco prima dell’intervallo e nella ripresa è un totale monologo colombiano: Asprilla, ancora Rincón, quindi il pokerissimo di Valencia.
5-0. L’Argentina vice-campione del mondo è spazzata via e costretta allo spareggio contro l’Australia, mentre i gialloblù festeggiano la qualificazione a USA ’94. In casa del “Pibe de oro”, tutti abbracciano “el Pibe” colombiano, un grandissimo centrocampista dalla chioma riccia e bionda di nome Carlos Valderrama. Per le strade di Bogotà, Medellin e Cali è festa grande e per qualche ora il popolo sembra dimenticare il bagno di sangue in cui la Colombia è affondata da anni, soprattutto per colpa di un altro Escobar, Pablo Emilio.
Un Paese in ginocchio
Quando “el Patrón” viene scovato e ucciso dalla polizia colombiana il 2 dicembre 1993, la nazione è ormai dilaniata da violenza, attentati e da un tasso di criminalità che non ha eguali. Eppure si tratta del Paese in cui, a partire dalla fine degli Anni 70, entrano più soldi. Si stima che, al suo apice, il cartello di Medellin guidato da Pablo Emilio Escobar Gaviria muova una cifra vicina ai 70 milioni di dollari al giorno. I soldi fanno il percorso inverso rispetto alla polvere bianca, quindi da Miami alla Colombia. C’è un solo modo per ripulire quelle montagne di denaro: riciclarlo. Il calcio è la lavatrice ideale per i Narcos: “el Patrón” acquista l’Atlético Nacional di Medellin, proprio la squadra in cui cresce il suo omonimo Andrés. Lo stesso fanno, dall’altra parte del Paese, i Narcos di Cali, diventando proprietari del club locale.
Ma con la morte di Pablo, tra i cartelli di Cali e Medellin si scatena una guerra senza esclusione di colpi per la successione al trono del “Magico”, una guerra che coinvolge migliaia di civili innocenti e che, nell’estate del 1994, è più accesa che mai. Per ripulire ulteriormente i guadagni illegali, entrambi i gruppi scommettono cifre enormi sul passaggio del turno della Colombia a USA 94. In molti puntano addirittura sul successo finale dei Cafeteros. Ma non hanno fatto i conti con l’imprevedibilità del calcio, la sfortuna e il talento del “Maradona dei Carpazi” Gheorghe Hagi.
Disastro made in USA
Il girone A con Stati Uniti, Romania e Svizzera sembra una pura formalità per la squadra di Francisco Maturana. Che è orfana del portiere titolare René Higuita: l’autore del celebre “colpo dello scorpione” è in carcere, perché ha trattato con i narcotrafficanti la liberazione di una persona sequestrata, e la legge colombiana lo vieta. In porta c’è Cordoba dell’Atletico Cali, colpito al 15′ della gara inaugurale contro la Romania da Raducioiu. Poco dopo la mezzora Hagi si inventa una sciabolata da trenta metri che si infila sotto la traversa. Finisce 3-1 per gli europei.
La gara successiva contro gli Stati Uniti è già decisiva per Escobar e compagni. Ma è proprio alla vigilia del secondo match che i Narcos entrano in gioco: la sera precedente Maturana riceve un fax in albergo. «Se domani giocherà Gomez, le vostre case salteranno in aria», è l’anonimo messaggio. Si riferiscono a Gabriel Gomez, fratello del vice di Maturana, che in patria è ritenuto il responsabile della sconfitta contro la Romania.
Al Rose Bowl di Pasadena, il 22 giugno, ci sono circa 90.000 persone: i tifosi statunitensi sono in netta maggioranza, ovviamente, ma non mancano i sostenitori dei Cafeteros. Gli USA hanno una squadra organizzata, che si difende in massa e riparte in contropiede: non c’è altro modo per affrontare la Colombia super-favorita. Al 35′, un cross rasoterra di Harkes dalla sinistra sta per raggiungere Stewart: Andrés Escobar si getta in una disperata scivolata per intercettare il pallone, ma prende in controtempo Cordoba e lo spedisce nella sua porta.
Resta a terra per quasi un minuto, pancia in su e mani nei capelli. Sa che quello è molto più di un semplice autogol. È l’eliminazione della Colombia e lui, che è nato e cresciuto a Medellin, conosce fin troppo bene gli intrecci tra i cartelli e gli allibratori: intrecci da milioni di dollari; intrecci da migliaia di morti nell’arco di un decennio. È l’inizio della fine, per Andrés. Perché nella ripresa arriverà il raddoppio Usa con Stewart e, solo nel finale, l’inutile gol di Valencia. La Colombia è eliminata matematicamente, e tra Medellin e Cali sono andati in fumo un sacco di soldi.
La tragedia
Al ritorno in patria, Andrés sembra uno zombie. Nemmeno la sua ragazza Pamela Cascal riesce a strappargli un sorriso. Il difensore passa una settimana in giro per i locali e le discoteche di Medellin, quasi fosse una trottola impazzita, quasi avesse paura di fermarsi e di stendersi sul letto. È diventato taciturno, riflessivo, scontroso. Sa che, appena chiuderà gli occhi, sognerà quella maledetta scivolata che ha mandato la palla nella sua porta.
Sembra quasi prevedere il suo destino, tanto che il 29 giugno scrive una lettera rivolta a tutti i tifosi colombiani che viene pubblicata sulle colonne del quotidiano “El Tiempo”. Si scusa, ma rivendica con forza il diritto, suo e dei compagni, di poter riprendere a vivere. «Ci siamo impegnati per elevare il calcio colombiano, ma non siamo riusciti a reagire nel momento più difficile – scrive Andrés – Noi stessi siamo i primi ad esserne dispiaciuti. Ma il rispetto non deve mai venire a mancare». È una lettera carica di orgoglio e al tempo stesso di delusione: sembra un leone ferito e rinchiuso in gabbia. La frase conclusiva, però, assume tutt’altra valenza alla luce di quello che accadrà di lì a tre giorni: «A presto, perché la vita non finisce qui».
Alle 3.45 del 2 luglio 1994 torna nel parcheggio del “Padua”, un locale notturno, in compagnia di tre ragazze. Pare che lì nasca una discussione con tre uomini a bordo di un Land Cruiser nero: volano parole grosse, forse per semplici motivi di parcheggio, forse proprio per quell’autorete. Fatto sta che Humberto Muñoz Castro, vicino al gruppo paramilitare dei PEPES – che avevano già contribuito in maniera indiretta all’assassinio dell’altro Escobar – gli spara sei colpi di mitraglietta. Quando raggiungerà la Clinica Medellin, Andrès Escobar sarà già morto.
Ai suoi funerali partecipano circa 120.000 persone, provenienti da ogni angolo della Colombia: la sua morte scuote la nazione come nessuno degli attentati avvenuti negli anni precedenti è riuscito a fare. Da quel momento in poi, il presidente Gaviria inasprirà la battaglia nei confronti del narcotraffico. Per anni nessun calciatore indosserà la maglia numero 2 della nazionale, che nel 1998 tornerà sulle spalle di un altro calciatore dell’Atlético Nacional, Ivan Ramiro Cordoba.
A Medellin Andrés è immortalato in numerosi murales, e nelle partite della Colombia non manca quasi mai una bandiera gialla, rossa e blu su cui campeggia il suo volto. Il volto di un ragazzo come tanti, che amava giocare a calcio più di qualsiasi altra cosa.
Articolo a cura della redazione di Il Romanista
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