Sarà capitato a tutti di essere arrivati in ritardo ad un appuntamento – complici, magari, il traffico, il parcheggio che non si trova e chissà che altri imprevisti – ma alcuni di noi sono dei veri e propri ritardatari cronici.
I ritardatari cronici non lo fanno per cattiveria a far aspettare gli altri o a mancare la consegna di un lavoro o a non rispettare gli orari: nel loro cervello, infatti, un minuto non è composto da 60 secondi, ma da 77.
Ebbene il Wall Street Journal ha raccolto molti studi a riguardo e ha fatto una sintesi stabilendo – come si legge su Repubblica – che esistono due tipi di persone: il tipo A, sempre puntuale e preciso, competitivo e con una punta di aggressività, secondo cui un minuto vale 58 secondi; e il tipo B, indaffarato, multi-tasking, che si concentra poco.
La differenza tra i due è del 30%, per cui i ritardatari cronici hanno un orologio mentale estremamente diverso dai più puntuali e organizzati, ma questo atteggiamento non è da imputarsi alla maleducazione dell’individuo quanto al fatto che egli sbaglia sistematicamente i calcoli per spostarsi da una parte all’altra, prepararsi per un incontro o terminare un lavoro.
Come riportato ancora sulla Repubblica, ecco alcuni consigli da parte di Justin Krueger, esperto di psicologia sociale, per ovviare alla questione del costante ritardo: “Se il problema per gli individui del tipo B è una carenza previsionale, uno dei rimedi consiste nello “scomporre” in tanti elementi una singola operazione. Suddividendo i vari passi successivi per arrivare all’appuntamento, ci si aiuta a fare una previsione più realistica. Idem per un impegno di lavoro, la preparazione di un documento da presentare in ufficio, e così via”.
Il problema culturale, in ogni caso, resta: in Italia, per esempio siamo più tolleranti verso i ritardatari cronici, in altri paesi è inammissibile e spesso combacia con una carenza di competitività sugli obiettivi da raggiungere al lavoro.